Corriere 25.9.16
l’estrema semplificazione rende il populismo debole
di Gianfranco Pasquino
Vedo
un eccessivo e scriteriato (vale a dire, senza validi criteri) uso
delle parole «populismo» e «populisti». Quello che non (ci) piace,
poiché noi saremmo tutti sinceri democratici, e che, per di più vince e,
in qualche modo, ci minaccia, è populismo: dalla Svezia alla Grecia,
dalla Finlandia alla Spagna, da Marine Le Pen a Beppe Grillo (Matteo
Salvini lo metto fra parentesi). Così facendo, anneghiamo le differenze
fra i vari partiti e partitini che criticano la politica tradizionale e
attaccano le democrazie esistenti e precludiamo a noi e ai nostri
concittadini «non populisti» una adeguata e differenziata comprensione
del populismo (che, come è noto, circola anche in America Latina e fa
sempre capolino nella politica degli Usa).
In linea di principio,
non è affatto chiaro perché coloro che sono preoccupati
dall’immigrazione e che vorrebbero filtrarla, contenerla, ridurla
debbano essere definiti populisti. Allo stesso modo, mi pare più che
legittimo porre il problema delle modalità di, qui qualsiasi parola che
userò è destinata ad essere controversa, assorbimento (?), integrazione
(?), inclusione(?), accettazione (?) dell’Islam, ovvero dei migranti di
religione musulmana, senza essere etichettati come populisti. Nessuno
può davvero credere che qualsiasi critica all’Euro e all’Unione Europea
sia impregnata di populismo. Anzi, molte critiche sono pienamente
giustificate, addirittura utili, magari ricordandoci che l’Unione
Europea siamo noi e che, pur tenendo conto delle istituzioni dell’Ue e
di chi vi occupa cariche, la responsabilità di quello che non funziona e
di quello che non viene riformato spetta, quasi tutta, ai capi di
governo degli Stati membri.
Chi critica il proprio governo, ma
anche quello di altri paesi, per esempio, il Cameron della Brexit,
l’ungherese Orbán alacre costruttore di muri, il non proprio affidabile
greco Tsipras, non è necessariamente populista. Anzi, di solito è un
democratico che vede errori, furbizie, inadeguatezze che si riflettono
pesantemente sull’Ue. Infine, abitualmente i movimenti e partiti
definiti populisti «sfruttano» il disagio dei loro concittadini per le
diseguaglianze crescenti e cresciute, per disagi economici effettivi,
per la corruzione e la disonestà di non pochi ambienti della politica.
Neppure questo, di per sé, mi pare populismo. Potrebbe, persino,
segnalare l’esistenza di una opinione pubblica che ha deciso di essere
vigile e di attivarsi, quando può, con il voto, costretta a scegliere
fra le alternative che le vengono offerte.
Sono arrivato quasi a
sostenere che il populismo non esiste? Nient’affatto. Ho voluto mettere
in evidenza che a fondamento delle critiche ai partiti esistenti e alla
loro inadeguatezza di governance nazionale e europea stanno corpose
tematiche difficili da affrontare e destinate a durare. La debolezza del
populismo, che è anche la caratteristica che ne consente una precisa
individuazione, è l’estrema semplificazione delle soluzioni: un muro
contro i migranti; sepoltura dell’euro e ritorno alle monete nazionali;
fuoruscita dall’Unione Europea; rottamazione (sic) della classe politica
e ingresso trionfale dei cittadini in Parlamento. Di tanto in tanto,
poi, arriva la verifica empirica, quella che Norberto Bobbio chiamava
«la dura lezione della storia». Quei terribili semplificatori dei
populisti non hanno praticamente nessuna soluzione a nessuno dei
problemi grazie alla denuncia dei quali hanno conquistato voti. Togliere
il «popolo» ai populisti si può, non demonizzandolo, ma approntando
risposte e costruendo canali di espressione e strutture di
partecipazione per il popolo poiché la democrazia è «potere del popolo».
Se rimane solo il potere e il popolo sparisce, gli anglosassoni
direbbero che fa la sua comparsa un entirely new ball game . È un gioco
al quale i democratici non possono acconsentire.