Il Sole 24.9.16
Sull’orlo del baratro commerciale
lo stato di confusione mentale con cui di questi tempi l’Europa gestisce la sua politica commerciale
di Adriana Cerretelli
C’è
sicuramente molto elettoral-populismo nello stato di confusione mentale
con cui di questi tempi l’Europa gestisce la sua politica commerciale. O
meglio rischia di affondarla. Certo, ci si potrebbe riconfortare
pensando che l’America non fa meglio.
Ma sarebbe una magra
consolazione che nulla toglie alla sostanza del problema: dopo
l’iniziale fase di esaltazione collettiva sulle sue promesse infinite e
generalizzate, oggi la globalizzazione appare in ritirata dovunque
perché ha deluso molti. Ovunque le pubbliche opinioni ne colgono più i
danni dei benefici e in tempi di elezioni nessun Governo o partito che
voglia vincerle può contraddirle più di tanto.
Così negli Stati
Uniti, entrambi i candidati alla presidenza, Donald Trump e Hillary
Clinton, sparano a zero contro il Tpp, l’accordo di partnership
transpacifica che dovrebbe legare in una grande alleanza economico-
commerciale l’America a 11 Paesi asiatici, Giappone incluso ma Cina
esclusa. Assertore di un neo- isolazionismo aggressivo, Trump predica la
fine delle intese commerciali, barriere contro la Cina, il rifiuto
dell’accordo di Parigi sul clima.
Con accenti molto meno roboanti
ma con manifestazioni di piazza di sicuro altrettanto rumorose a Berlino
come a Bruxelles contro il Ttip, l’Europa appare sempre più lontana dal
campione delle liberalizzazioni commerciali che era ancora 15 anni fa.
Fallito il Doha Round, la conversione dal multilateralismo al
bilateralismo dei patti commerciali sembrava un surrogato efficace e
credibile. Per tutto l’Occidente. Che ora però sembra ripensarci, scosso
dagli iniziali mirabolanti successi delle economie emergenti come dai
costi sociali di una concorrenza violenta. Incapace di mettere in fila
anche i dividendi innegabili di un mondo aperto e global.
Elezioni
imminenti in Olanda, Francia e Germania non aiutano. Perfino Angela
Merkel, da sempre accanita paladina del Ttip, l’accordo transatlantico
su commercio e investimenti, si è mimetizzata su un bassissimo profilo.
Se questo è il nuovo mood eurooccidentale, i 28 ministri Ue del
Commercio, riuniti ieri a Bratislava, non potevano che prenderne atto.
È
così è stato. Nessun certificato di morte ufficiale per il Ttip ma la
constatazione che, da qui alla fine della presidenza Obama in gennaio,
sarà impossibile concludere i negoziati. Che cosa accadrà poi è un
immenso punto interrogativo. Tecnicamente la ripresa delle trattative
richiederà circa un anno ma, con l’aria che tira, chiunque sarà il nuovo
inquilino della Casa Bianca potrebbe abbandonarla su un binario morto.
Anche
l’accordo con il Canada, il Ceta, resta in bilico nonostante i migliori
propositi manifestati a Bratislava: il via libera alla firma ufficiale
il 27 ottobre tra Unione e Canada, previa una dichiarazione rassicurante
per la pubblica opinione e le sue preoccupazioni, più o meno razionali.
Il tutto mantenendo però il ricorso alle ratifiche nazionali e
regionali, 38 in tutto. Tutte dovranno esprimere un sì perché possa
entrare in vigore. Si sa già che manca l’unanimita’ dei consensi.
Dulcis
in fundo il Trattato di associazione Ue-Ucraina: ora l’Olanda si
rimangia la ratifica per rispettare l’esito di un suo referendum
consultivo dove il 30% degli olandesi l’ha bocciata a maggioranza. In
alternativa propone di ritenere valida la ratifica a 27 invece che a 28.
Brexit docet?
Sullo sfondo la guerra dei sussidi miliardari tra
Airbus e Boeing al Wto, il conto da 13 miliardi con interessi presentato
da Bruxelles a Apple, tensione alle stelle con gli Stati Uniti. Ma in
questo clima quanto può resistere indenne il legame transatlantico?