Il Sole 20.9.16
La sindrome di Woody Allen che affligge i mercati
di Morya Longo
«Dio
è morto, Marx è morto e anch’io mi sento poco bene». I mercati
finanziari sembrano ormai afflitti dalla sindrome di «Woody Allen»: le
banche centrali danno l’impressione di avere perso la bussola,
l’economia sembra non rispettare più le regole basilari e - in questo
contesto - anche i mercati non si sentono più molto bene. È per questo
che navigano a vista. Seguendo di tanto in tanto brevi “mode” passeggere
(il rallentamento cinese a inizio anno, la caduta del petrolio a
febbraio, la crisi delle banche europee in primavera o l’incubo Brexit a
giugno), destinate ad essere sostituite da altre “mode” altrettanto
fugaci. Ma senza una visione del futuro. Senza un trend vero. Senza
sapere dove stiano andando davvero. Basta parlare con qualunque
strategist o investitore per capirlo: l’unica cosa che li accomuna è
l’incertezza e la scarsa visibilità sul futuro.
Nella settimana in
cui la Federal Reserve Usa e la Bank of Japan sono chiamate a decidere
sulla loro politica monetaria (oppure a non decidere), la sindrome di
Woody Allen appare nella sua piena evidenza. È ovvio infatti che le
banche centrali siano in una fase di stallo. La Federal Reserve dovrebbe
alzare i tassi d’interesse, perché l’economia Usa cresce e la
disoccupazione è quasi completamente debellata. Ma tranne sorprese
clamorose, anche alla luce della spaccatura all’interno del suo board,
non farà nulla questa settimana. E forse non farà niente neppure nei
prossimi mesi: perché i rischi (per l’economia Usa e per quella globale)
sono elevati. E perché c’è sempre un motivo per aspettare. La Bank of
Japan potrebbe ridurre i tassi o pigiare ulteriormente l’acceleratore
della sua politica monetaria ultra-espansiva, ma in un contesto di
scetticismo collettivo: ormai il dibattito verte più sugli effetti
collaterali delle sue decisioni (per esempio sulle banche e sui fondi
pensione) che sui benefici. E anche la Bce è in una fase di ripensamento
della politica monetaria, spaccata anch’essa al suo interno. Morale: le
banche centrali, che per anni sono state il “faro” dei mercati
finanziari, ora sono diventate uno dei loro principali elementi di
incertezza.
Anche i fondamentali economici, tradizionale bussola
dei mercati, ormai sembrano parlare una lingua difficile da capire.
Prendiamo l’economia Usa. La crescita del Pil c’è, la disoccupazione è
ai minimi. Eppure tutti sanno che la qualità del lavoro è molto bassa,
che la partecipazione al mercato del lavoro è sui minimi da decenni e
che gli stipendi - stranamente data la vitalità della congiuntura -
crescono poco. Le regole basilari dell’economia sembrano stravolte:
perché il calo della disoccupazione non è accompagnato da un aumento
vero dei salari? E poi: perché al calo della disoccupazione non
corrisponde una crescita vera dell’inflazione? Forse proprio perché la
ripresa dell’occupazione è di bassa qualità. O forse perché l’economia
globale, non solo quella statunitense, sta cambiando strutturalmente:
l’invecchiamento della popolazione, la digitalizzazione e tanti fenomeni
globali hanno impatti consistenti ma difficili da decifrare. Qualcuno
pensa che proprio questi cambiamenti strutturali stiano portando il
mondo verso una «stagnazione secolare». Qualcuno ritiene che
l’inflazione non risalirà mai e che le banche centrali perseguano ormai
l’obiettivo sbagliato. Ma, in realtà, in pochi riescono davvero a
decifrare mutamenti così complessi e così inediti. A partire dalle
stesse banche centrali.
In un contesto così incerto, è ovvio che i
mercati siano afflitti dalla sindrome di Woody Allen. Ed è altresì
ovvio che siano dominati dai day trader (anch’essi ormai in gran parte
computerizzati), che si muovono seguendo correlazioni momentanee oppure
eventi sporadici. A inizio anno era il rallentamento economico della
Cina a preoccupare tutti: così gli algoritmi muovevano tutte le Borse
sincronizzandole con le notizie che uscivano da Pechino o da Shanghai.
Poi è diventato il petrolio, che continuava a crollare, il focus: ad
ogni sussulto del greggio, dunque, le Borse si muovevano in alto o in
basso. Poi è arrivato l’isterismo da banche. Poi Brexit. Qualcuno pensa
che il prossimo focus riguarderà gli utili delle aziende americane,
qualcuno ritiene che saranno ancora le banche centrali a dettare il
ritmo sulle Borse. Qualcuno teme che presto scoppierà una delle tante
bolle speculative che il quantitative easing ha gonfiato. Ma, in questa
era degli algoritmi, nessuno davvero lo sa.