Il Sole 15.9.16
Il ballottaggio tra due sole liste sacrifica le vere scelte dell’elettore
di Valerio Onida
Roberto
D’Alimonte è tornato a difendere domenica scorsa il meccanismo del
“ballottaggio” previsto dalla nuova legge elettorale per la Camera.
L’argomento principale che egli porta non è privo di pregio: il secondo
turno di “ballottaggio”, aperto a tutti gli elettori, consente a questi –
dopo avere espresso al primo turno la loro preferenza per una qualsiasi
delle liste in campo - di esprimere al secondo turno le loro “seconde
preferenze”, cioè di scegliere, se non la lista preferita, quella (fra
le due ammesse al ballottaggio) che appare meno lontana dalle proprie
posizioni. È vero infatti che, in democrazia, se non è sempre possibile
avere quello che secondo ciascuno di noi è il meglio, è importante poter
scegliere anche il “second best” o il meno peggio. Il secondo turno ha
questo pregio. Così accade per esempio in Francia, dove in ogni
collegio, se nessun candidato ottiene più del 50% dei voti in prima
battuta, c’è una seconda votazione in cui l’elettore può scegliere fra i
soli candidati che al primo turno hanno ottenuto il consenso di almeno
il 12,5% degli elettori, ed è eletto chi ha più voti. Si noti però,
anzitutto, che questo è un ballottaggio “semi-aperto” cui possono
partecipare spesso almeno tre candidati. Soprattutto, poi, quel sistema
prevede il ballottaggio collegio per collegio, per la scelta dell’unico
rappresentante di esso. Nel singolo collegio uninominale infatti non ci
può essere, per definizione, una rappresentanza delle minoranze:
nell’assemblea elettiva questa è normalmente frutto solo del diverso
modo in cui si distribuiscono nei diversi collegi le scelte degli
elettori, ed è quindi spesso casuale (ecco perché, quando da noi si
adottò il collegio uninominale, giustamente si previde anche una
correzione proporzionale del sistema). In questi sistemi, non c’è un
unico ballottaggio che decide “il vincitore” a livello nazionale (fra le
liste o i partiti in lizza), ma è la somma dei ballottaggi (o delle
maggioranze conseguite al primo turno) che decide la composizione
dell’assemblea. In un sistema a collegi uninominali, dove l’elettore
sceglie la persona del rappresentante che preferisce, la scelta di
partito, soprattutto quando si tratta di esprimere una seconda scelta
(ma talora anche nella prima scelta) può essere mediata o corretta da
una preferenza individuale. E, nel sistema francese, come si è detto, il
ballottaggio può essere fra più di due candidati.
Altro è un
ballottaggio fra due sole liste, su base nazionale. Questo può di fatto
impedire a quote importanti di elettori di esprimere quella che sarebbe
la loro vera seconda scelta (ho votato in prima battuta per il partito
A, ma in secondo turno, visti anche i risultati del primo, voterei il
partito B, mia seconda scelta), perché il ballottaggio è aperto solo
alle due liste che hanno avuto più voti delle altre (anche pochissimi di
più) al primo turno. Di fatto, supponiamo che ottengano più del 15 o
20%, ma meno del 30% per cento, quattro liste (nell’attuale situazione
italiana non è un’ipotesi così teorica). Al ballottaggio l’elettore
potrebbe essere costretto a scegliere fra sole due liste entrambe assai
lontane dalle sue (anche seconde) preferenze. Non è detto infatti che le
prime due liste siano riconducibili grosso modo a due contrapposti
orientamenti fondamentali degli elettori, così che al secondo turno
tutti gli elettori possano schierarsi in base alla loro seconda
preferenza. Una scelta fra soli due, infatti, si attaglia a sistemi
bipartitici o almeno bipolari: ma oggi, non solo in Italia, l’arco delle
proposte politiche è assai più articolato, onde può bene accadere che
vadano al ballottaggio due liste che, dal punto di vista di gruppi
importanti di elettori, non meriterebbero né una prima né una seconda
scelta; e magari che la “seconda scelta” di molti elettori finisca per
essere più una scelta contro qualcuno, che non una scelta a favore di
una proposta.
In tutti questi casi, costringere l’elettore a
scegliere solo fra due liste, e attribuire la maggioranza assoluta della
Camera a una sola lista, anche se (relativamente) poco votata al primo
turno, solo perché ha superato di poco la terza e la quarta lista, e poi
ha vinto il ballottaggio a due, rischia di rafforzare posizioni
tendenzialmente “estreme” (da una parte o dall’altra) o comunque non
disposte a convergere, e di indebolire troppo, per converso, le
posizioni più “dialoganti” e disposte a incontrarsi. Se si vuole
mantenere doppio turno e premio di maggioranza su base nazionale (e non
tornare al sistema dei collegi uninominali, con opportune correzioni)
occorrerebbe almeno, da un lato, prevedere un ballottaggio aperto a
tutte le liste che abbiano raggiunto un determinato livello di suffragio
al primo turno; consentire che al secondo turno si realizzino accordi
di coalizione fra più liste; e prevedere che il premio di maggioranza si
possa conseguire solo se una lista supera il 50% nel secondo turno,
sempre che in esso la partecipazione al voto superi una soglia
significativa (per esempio il 65-70 % degli elettori, o comunque una
soglia non troppo inferiore a quella raggiunta al primo turno).
Prevedo
l’obiezione: in tal modo non si garantisce che in ogni caso un solo
partito (o lista) ottenga la maggioranza assoluta della Camera e possa
quindi governare senza impacci o necessità di alleanze. La risposta è
duplice. La prima è che, in un sistema di partiti molto pluralistico, la
necessità di alleanze non è sempre un male, e anzi in molti casi può
contribuire a dar vita a piattaforme politiche più robuste e meglio in
grado di affrontare i problemi reali. La seconda risposta è che, data la
fisionomia e la prassi attuale dei nostri maggiori partiti, la
stabilità e la (non meno auspicabile) coerenza politica dei governi
possono essere pregiudicate non solo dai dissensi fra partiti e dalla
loro resistenza a coalizzarsi, ma anche, e forse più, dai dissensi
interni al partito (o alla lista) che vince. In presenza di questi
dissensi, spesso profondi, può garantire meglio stabilità e coerenza una
maggioranza parlamentare costituita, anche fra partiti diversi, ma in
base a programmi precisi negoziati e pubblicamente convenuti, che non la
“vittoria” di un solo partito o di una sola lista destinata a dividersi
all’indomani delle elezioni. A meno che i partiti non si riducano, più
di quanto già purtroppo non siano, a essere comitati elettorali composti
dai fedelissimi di un “capo” partito, candidato premier designato a
priori, il quale, controllando il partito, possa fare sì che gli eletti
di questo appartengano tutti o quasi alla schiera dei suoi fedelissimi.
Ma allora non saremmo più in un vero regime parlamentare, bensì in una
forma di “democrazia del capo”, che assomma in sé il controllo stretto
del Governo e della maggioranza parlamentare. Che vi sia chi apertamente
auspica questo, è vero: ma chi non condivide questa impostazione, non
può non dissentire da strumenti disegnati a quello scopo.