Il Sole 12.9.16
Per la scuola non bastano le buone intenzioni
di Luisa Ribolzi
In
inglese esiste un’espressione, wishful thinking, che indica una
concezione basata su di un «travisamento ottimistico della realtà», per
cui basta enunciare un proposito, perché esso si realizzi. In apertura
dell’anno scolastico, mi verrebbe di dire che i decisori politici
italiani sono dei maestri del wishful thinking, instancabili nel
riproporre soluzioni salvifiche senza tenere conto della realtà, senza
valorizzare le esperienze positive e senza accettare che le
trasformazioni del sistema educativo non avvengono né in un giorno né in
un anno. Tuttavia, quando la «Buona scuola» fu annunciata, ci fu una
positiva reazione al fatto che un governo poneva come priorità la
questione educativa, e anche se questa risoluzione si è molto
annacquata, il giudizio positivo resta, e dovrebbe spingere a supportare
i tentativi di realizzazione, in attesa che escano le previste deleghe.
Tra gli aspetti positivi, c’è il processo di realizzazione
dell’alternanza scuola lavoro, che sta diventando parte integrante della
progettazione nelle scuole secondarie superiori, e ha l’indubbio merito
di avvicinare la scuola e il mercato del lavoro in quanto alleati nella
produzione di competenze, e soggetti educativi di pari dignità. Questo è
stato possibile grazie ad anni di progetti comuni adeguatamente
valutati e riproposti. Un giudizio per lo più positivo si può formulare
sulle strategie di inclusione dei ragazzi con cittadinanza non italiana,
e sui timidi passi in avanti per una effettiva integrazione delle
scuole paritarie nel sistema nazionale, anche se continua a mancare una
seria ricerca sui costi e i benefici di un sistema integrato. Per
contro, la realizzazione della piena autonomia ha tempi lenti e momenti
di stallo, i finanziamenti alle scuole restano irrilevanti, e i supposti
poteri del “preside sceriffo” sono seriamente inficiati dai meccanismi
burocratici.
Continua pagina 16 Luisa Ribolzi
Continua da
pagina 1 I processi di valutazione vivono fra luci ed ombre, attaccati
da chi vorrebbe limitarsi all’ autovalutazione rifiutando ogni controllo
esterno: l’Invalsi continua però la sua attività, e i recenti e molto
pubblicizzati fenomeni di differenziazione fra i voti della maturità, e
fra questi voti e l’esito dei test standardizzati, ha fatto crescere
l’idea che sia necessario un sistema di valutazione oggettiva, per
quanto carente e migliorabile. Resta molto da fare per il corpo
ispettivo e per il potenziamento delle attività di ricerca e sostegno al
miglioramento attribuite all’Indire. Manca una seria ricerca sulle
esperienze compiute: tanto per fare un esempio, dovrebbe partire la
sperimentazione di una secondaria superiore di quattro anni in sessanta
classi prime (lo scorso anno gli iscritti nelle classi prime erano circa
seicentomila…), ma non sono state valutate le molte scuole superiori
italiane all’estero che dal 2010 sono di quattro anni.
E siamo
arrivati al punto dolente: la questione degli insegnanti, che è stata
affrontata – nonostante il dettaglio - dal punto di vista del “pio
desiderio”, promettendo ancora una volta la fine del precariato. La
realtà è sotto gli occhi di tutti, e pare evidente che non se ne esce
senza sostanziali mutamenti dello status quo. Questo significa che lo
Stato fissa i requisiti per accedere alla docenza, ne controlla il
possesso, abolendo le graduatorie, determina alcuni elementi del
contratto di lavoro, sia in termini economici sia per tutelare la
libertà di insegnamento, e fissa le linee per la valutazione. Le
procedure di reclutamento dovrebbero essere lasciate alle scuole o alle
reti di scuole. Non mi importa se i presidi sceglieranno parenti e
amici, purché siano salvi i requisiti di qualità. Marie Curie non doveva
avere il Nobel perché era moglie di Pierre, figurarsi poi la loro
figlia Irene? Il possesso di un titolo non garantisce a nessuno il posto
di lavoro: perché questa regola non dovrebbe valere per gli insegnanti?
Solo
modificando profondamente il reclutamento, e quindi il finanziamento
dell’istruzione, e lasciando al mercato, sia pur regolamentato, i
meccanismi di trasferimento, sarà possibile avere in ogni scuola fin dal
primo giorno il tipo e il numero di insegnanti necessari, pagati in
base al lavoro che svolgono, eliminando alla radice il circolo vizioso
del precariato. Se le motivazioni di questo assurdo “mercato del lavoro”
sono di tipo politico, finalizzate alla crescita del consenso, si abbia
il coraggio di dirlo: ma allora bisogna anche riconoscere che la scuola
è finalizzata prima agli interessi degli operatori, e poi dei clienti.
Lo studente, per dirla con Aristotele e con i sindacati, è un accidente
che interferisce con la sostanza della scuola, che è e resta il posto di
lavoro degli insegnanti.