Il Sole 10.9.16
Il pericolo di un governo nazionale a cinque stelle
Il valore delle istituzioni e quelle pressioni indebite
di Montesquieu
Gradualmente,
quasi inavvertitamente e nel giro di poche settimane, nel dibattito
politico e mediatico nazionale nomi sconosciuti di burocrati o assessori
comunali si vengono sostituendo a quelli dei grandi protagonisti di
questo inizio di secolo, ricco di immani tragedie e riemergenti,
pericolose tensioni internazionali. I primi passi, surreali e goffi,
della prima cittadina della capitale - in buona parte incolpevoli e
spesso ingenerati dai folcloristici rituali del movimento Cinque stelle -
hanno creato una sovraeccitata, quasi morbosa attenzione della politica
e dei commenti alla politica. Una considerazione banale: questa
esagerata attenzione, questa attrazione per una vicenda pur sempre di
governo locale non è frutto di un inedito, spasmodico interesse per la
qualità dell’amministrazione della capitale, quanto del timore - o della
parallela speranza - di una sorta di rivoluzione politica alle viste,
delle dimensioni non inferiori a quella dei primi anni novanta.
Allora
toccò ai partiti della prima repubblica, logorati da un dilagante
malaffare, lasciare spazio ad un soggetto politico dalle caratteristiche
inedite: un partito personale e istituzionalmente anarchico o
libertario, che avrebbe segnato un intero ventennio, emerso praticamente
senza preavviso, grazie a un esito elettorale imprevisto
ed inopinato.
Ora
il preavviso esiste: l’agenda della politica segna da tempo come
prospettiva possibile l’ascesa al governo centrale da parte di un
soggetto politico dai caratteri istituzionali e costituzionali ben più
originali, difficilmente componibili con la nostra legge fondamentale.
Assai più di quanto non lo fosse il partito berlusconiano, che per
istinto e cultura professionale del protagonista mal tollerava le
inutili lungaggini e i bilanciamenti propri di un sistema parlamentare e
multiistituzionale, ma in un quadro di accettazione formale delle
regole costituzionali. Il via libera ad un governo nazionale del
movimento passa, ovviamente, per un successo elettorale, a sua volta
fortemente legato al buon esito dell’esperienza della giunta Raggi. Da
qui la morbosa attenzione per le prime mosse del nuovo sindaco, anche
quelle minori, legate per l’appunto all’attribuzione di incarichi di
giunta o addirittura di collaborazione burocratica. Attenzione che si
concentra però sugli aspetti politicamente agonistici della vicenda,
come è nelle corde e nella limitata sensibilità istituzionale della
politica partitica e della informazione politica: senza avvertire già da
queste prime mosse, malcerte e indebitamente contrastate all’interno
del movimento, le possibili conseguenze a livello istituzionale di un
governo che sarebbe a guida esterna e irresponsabile, come è nella
natura e nella struttura del movimento. Segnali ancora deboli a livello
municipale - anche grazie alle fin qui apprezzabili resistenze del
sindaco -, ma ben avvertibili negli indeterminati, opachi controlli
successivi a cui si sottopongono tutte le sue decisioni, perfino quelle
legate alla scelta dei propri uffici. E che potrebbero prolungarsi sino
alla sconfessione stessa della Raggi, come insegnano le istruttive
vicende del comune di Parma, o altre simili: ed alla pretesa di
interromperne il mandato con connessa espulsione. In piena violazione
della lettera e dello spirito della legge sull’elezione diretta dei
sindaci, che trasferisce nell’elettorato decidente la sovranità
sull’eletto, espropriandone il partito di origine. Una legge frutto
della fertile stagione di rinnovamento istituzionale popolare promossa
da Mario Segni, subita ben più che condivisa dalla cultura politica dei
partiti. Per cui una interruzione traumatica dell’esperienza in atto
troverebbe inopportuna complicità e copertura alla sua gravità
istituzionale nell’unico, convergente interesse dei partiti concorrenti,
quello di un tonfo il più repentino possibile della giunta “grillina” e
della conseguente evaporazione del vero pericolo. Quello di un governo
nazionale a cinque stelle. Ma proviamo ad immaginare una pretesa
egemonica del movimento nei confronti di un proprio presidente del
consiglio designato dal capo dello Stato che intendesse muoversi con la
dovuta autonomia, e le dirompenti conseguenze di un conflitto
istituzionale atipico quale quello che ne seguirebbe. Un livello di
controllo e indirizzo della politica di governo esercitato da un
soggetto operante in clandestinità, privo di legittimazione e
responsabilità, si porrebbe in confronto con le prerogative del capo
dello Stato, e di quelle successive delle camere. Una prospettiva che a
qualcuno può apparire frutto di fantascienza istituzionale, ma che è
nell’ordine degli eventi possibili: e che sarebbe bene avversare sul
piano istituzionale, non solo auspicando un insuccesso della giunta
Raggi, e una conseguente, meccanica - ma verosimilmente illusoria -
eredità del bottino elettorale del movimento. Un evento, quello
dell’insuccesso di Virginia Raggi, tutto giocato sulla pelle dei romani
prima, e di tutto il paese subito dopo.