il manifesto 9.9.16
Due cose buone, ma qualche perplessità
La
sola ribellione non servì nel ’68 figuriamoci adesso. Reinventare «i
disubbidienti» non è sufficiente, né qui e tanto meno in Europa. A
Varoufakis dico: per restituire sovranità al popolo europeo servono
invenzione, progetto, organizzazione, egemonia, le «casematte»
di Luciana Castellina
Ho
visto e letto negli ultimi giorni due cose che mi hanno reso contenta, e
tuttavia mi hanno anche indotto a riflessioni polemiche. Mi confesso in
pubblico (quello dei lettori del manifesto, si intende, in grado,
forse, di condividere le mie soddisfazioni e pure i miei mugugni).
Comincio
dal «visto»: Assalto al cielo, il film sul ’68 di Francesco Munzi,
presentato fuori concorso al festival di Venezia e su cui ha scritto
Silvana Silvestri. Sono andata a vederlo perché Munzi è un bravissimo
regista, ha fatto bei film, specie l’ultimo, Anime nere. Insomma: una
garanzia preziosa visto che la materia è stata fino ad oggi quanto mai
maltrattata.
Penso all’orrenda celebrazione ufficiale del
quarantesimo, otto anni fa, quando il movimento che pur con tutti i suoi
errori e difetti ha segnato un cambiamento d’epoca è stato generalmente
ridotto a «sesso droga e rock and roll».
Non mi sono sbagliata:
il film è rispettoso della serietà dell’impegno e della passione
politica che hanno animato una consistente parte della generazione
arrivata alla maturità quasi mezzo secolo fa e le immagini – moltissime
custodite dall’Archivio del movimento operaio e democratico, ma quasi
mai arrivate ad un pubblico largo – sono bellissime. Inedita e
straziante l’intervista ai genitori del brigatista Walter Alasia. E
però. Munzi dice a Montini su Repubblica: «Non volevo che quel movimento
restasse ostaggio della memoria di quelli che l’hanno vissuto», che
fossero loro gli «unici titolati a parlarne». «Ho esposto i fatti –
continua – perché i giovani sappiano dove stava andando l’Italia».
Il
film glielo ha davvero fatto capire? Munzi stesso, che nel ’68 non era
neppure nato, si è fatto un’idea di cosa è stato? Su questo ho molti
dubbi e anche qualche preoccupazione. È vero che ognuno di noi – come
giustamente scrive Silvana – avrà una diversa lettura del film a seconda
della propria personale esperienza di quegli anni. Il ’68 – che in
realtà in Italia durò dieci anni – ha del resto avuto molte anime ed è
difficile ridurlo ad una unica espressione. Ma io credo che un dialogo
con chi invece all’epoca era già nato non sarebbe operazione oziosa,
perché dai frammenti di assemblee infuocate e di manifestazioni violente
– che certo ci sono state – non si ricava il senso più profondo, e in
questo senso comune, di quella sollevazione generazionale. Che non fu
una reazione disperata e puramente utopica, ma la presa di coscienza –
maturata dopo il ricco decennio dello sviluppo neocapitalista – dei
limiti di un modello di modernizzazione che, se chiuso entro l’orizzonte
capitalista, si sarebbe rovesciato in barbarie. Fu, insomma, una
precoce critica della modernizzazione in un’epoca in cui buona parte
della sinistra tradizionale partecipava al balletto Excelsior.
Fu,
certo, anche un movimento antiautoritario, ma la sua specifica
caratteristica, fu di aver capito che la libertà non è individuale ma
fonda le sue vere radici nei rapporti sociali di produzione (fu questa
la frase più popolare di Marcuse ).Di qui la ricerca di un rapporto con
la classe operaia, che, è vero, produsse anche scontri e incomprensioni,
ma fu vitale per determinare un mutamento della lotta nella fabbrica,
inizialmente indotto da minoranze, poi contagioso e infatti alla fine
veicolato dallo stesso sindacato, che ne garantì l’estensione. Fu merito
della Cgil e della Fim-Cisl aprirsi al movimento, sia pure non senza
scontri durissimi, al movimento, cosa che non avvenne che in Italia. Gli
anni ’70 furono infatti ricchi di conquiste e non solo di disastri.
Poi
abbiamo perso. Non solo per i nostri errori, ma anche per quelli di una
sinistra tradizionale che stentò a capire. E iniziò una tragica
involuzione. Il sistema operò, come così spesso nella storia, una
rivoluzione passiva: assunse le istanze libertarie individuali he non
mettevano in discussione il potere, e espulse quanto invece dava
fastidio. Se insisto a difendere il nucleo comune e vero della memoria
sessantottina non è per autodifesa, ma proprio per stabilire un dialogo
critico (e autocritico) con quelli nati nei ’90.
Per quanto ho
letto invece, mi riferisco all’articolo di Yanis Varoufakis sul
manifesto di martedì 6. Sono contenta, perché chiarisce nuovamente e con
più chiarezza di quanto aveva fatto in una assemblea a Roma qualche
mese fa di essere contrario ad abbandonare il campo di battaglia europeo
e a ripiegare su impossibili soluzioni nazionali. Così come auspica il
gruppo che fa capo a Lexit, la sinistra pronta ad abbandonare l’Unione
europea. I miei dubbi nascono dalla strategia proposta: se vogliamo
restituire sovranità al popolo europeo e togliere il diritto di
deliberare ai poteri extrapolitici, estranei al sistema democratico, cui
il liberismo l’ha affidato, basta la ribellione? Ribellarsi è giusto e
utile, ma non mi pare che reinventare «i disubbidienti» sia sufficiente,
né qui e tanto meno in Europa. Proprio perché il demos europeo va
costruito, decisivo è costruire quegli organismi intermedi che collegano
i cittadini con le istituzioni e che possono incidere sulle decisioni
riappropriandosi del diritto a deliberare che gli è stato espropriato.
Voglio dire costruire un vero sindacato europeo dotato dei diritti di
cui è dotato a livello nazionale; reti fra le città per progetti comuni
che ripensino il modo di vivere (quanta ispirazione dalla bellissima
Biennale di architettura di quest’anno, intitolata significativamente
«Siamo al fronte»); rete di organismi consolidati che comincino a
gestire direttamente pezzi della società; media comuni sì da evitare la
frammentazione dell’opinione pubblica europea su cui gioca il potere.
Anche partiti europei veri.
Ma allora non basta disubbidire,
occorre invenzione, progetto, organizzazione, egemonia. Senza casematte,
ci diceva Gramsci, il campo di battaglia è pericoloso.