il manifesto 8.9.16
Le prigioni immateriali del consenso
«L’idolo
del capitalismo», un pamphlet di Carlo Freccero per Castelvecchi.
L’industria culturale serve ad addomesticare le forme di vita e a
neutralizzare ogni possibilità di conflitto
di Nicolas Martino
«Ora
che lo spettacolo non occupa più solo le nostre vite ma anche i nostri
sogni, le nostre aspirazioni, il ruolo simbolico che un tempo è stato
della rivoluzione, possiamo dire che un ciclo si è concluso. Con una
sorta di silenziosa Invasione degli ultracorpi lo spettacolo si è
impadronito delle nostre vite, dei nostri corpi, riducendoli a gusci
vuoti». Così scrive Carlo Freccero in chiusura del fulminante pamphlet
L’idolo del capitalismo (Castelvecchi, pp. 48, euro 5).
Scritto
seguendo il sentiero di due giganti del Novecento, Theodor W. Adorno e
Guy Debord, nella prima parte si analizza la nascita dell’ideologia
neoliberista, quando una «nuova ragione del mondo» sostituisce il
compromesso tra capitale e lavoro che aveva garantito benessere senza
peraltro espungere il conflitto, ma piegandolo a proprio favore. Una
nuova ragione, ovvero un «idolo», che se da un lato si presenta come
legibus solutus rispetto al compromesso keynesiano, dall’altro produce
una «forma di vita» che punta a colonizzare l’anima dei soggetti e che,
fondata sul paradigma della gestione imprenditoriale e proprietaria del
sé, è «invariabilmente» di destra, e quindi viene politicamente e
retoricamente gestita in questo senso, essendo ormai «naturalmente»
fuori gioco qualsiasi sinistra.
Nella seconda parte Freccero
tratteggia le conseguenze sociali e antropologiche di quello che chiama
il «consumo culturale», ovvero quel divenire culturale del general
intellect che Frederic Jameson ha definito postmodernismo. Il divenire
immateriale della produzione ha fatto della cultura il consumo più
importante, nel divenire «culturale» della produzione di merci però,
questa era la tesi di Adorno, la cultura perde la sua «anima critica»
diventando puro intrattenimento e l’unica resistenza possibile diventa
il fortino dell’avanguardia, oppure il silenzio.
Una tesi che
struttura anche l’impianto de La società dello spettacolo di Debord, una
condanna senza appello, esito di un marxismo dialettico che apre a
esiti «tragici», come nel caso di Adorno e dell’Internazionale
Situazionista, o «ironici» come nel caso del filosofo francese Jean
Baudrillard. E da qui sembra discendere anche la conclusione di
Freccero, nel discorso del quale, però, rimane in agguato una
contraddizione «produttiva» della quale diremo tra poco.
Il fatto è
che ciò che questa tradizione di pensiero, pur nelle diverse
declinazioni, condivide, è una condanna dell’industria culturale in
quanto fabbrica del falso, e una idea della filosofia come
«disvelamento». Una posizione che potremmo riassumere così:
1) c’è
una verità che, occultata, occorre ristabilire; 2) questa verità la si
può ristabilire nella dialettica tra dentro e fuori, davanti e dietro,
vero e falso; 3) quando però il capitalismo riesce a colonizzare il
pianeta e anche l’anima nella loro totalità, non si da più dialettica e
quindi non è più possibile disvelare la verità. In poche parole, non c’è
più niente da fare.
Eppure, e Freccero lo sa bene, esiste
un’altra linea «materialista», anche nella teoria critica, che invece di
condannare l’industria culturale prova a studiarla dall’interno, e
punta tutto su un pensiero della superficie smarcandosi dalla dialettica
tra vero e falso, ma individuando sempre il conflitto. Basterebbe
citare Siegfried Kracauer che notava come «le masse si lasciano stordire
solo perché sono più vicine alla verità» e che «alla forma
dell’attività lavorativa corrisponde necessariamente la forma del
divertimento», per capire che nell’industria culturale c’è una battaglia
strategica da combattere, come riconosce lo stesso Freccero; svelando,
termine questa volta appropiato, la contraddizione «produttiva»: da
questo punto di vista è significativo che l’autore insiste sullo
sciopero degli sceneggiatori di Hollywood che è riuscito a «fare male al
padrone». Perché oggi le grandi fabbriche sono quelle dell’anima e sono
le intelligenze al lavoro nella cultura diffusa che possono organizzare
il conflitto.
Per questo va evidenziato il dissenso cona con la
conclusione di Freccero: se è vero, come dice lo stesso autore, che oggi
protagonista di «Matrix» non sarebbe più Neo, l’eroe che combatte per
ristabilire la verità, ma Cypher, il traditore che vuole annegare nelle
gioie dello spettacolo, la questione essenziale è, per chiudere con
Kracauer, che oggi quel film è rivolto «in forme sorpassate a nobili
sentimenti ormai obsoleti».