il manifesto 7.9.16
Elezioni in Palestina, donne candidate senza nomi né volti
Territori
Palestinesi Occupati. Per le amministrative dell'8 ottobre numerose
liste indipendenti hanno scelto di non pubblicare i nomi delle donne
candidate rendendole identificabili solo come «Moglie di... », «Sorella
di...».Lo sdegno delle attiviste dei diritti delle donne
di Michele Giorgio
RAMALLAH
Per chi andrà alle urne l’8 ottobre non sarà facile dare il voto a
tante donne palestinesi candidate per il rinnovo dei consigli municipali
in Cisgiordania e a Gaza. A meno che non intervenga la Commissione
elettorale per mettere fine allo scempio che sta avvenendo. Numerose
liste locali, indipendenti ma in realtà legate ad alcune delle
principali formazioni politiche, incuranti di ciò che prevede la legge
elettorale – i candidati devono essere pienamente identificati per nome,
età, indirizzo – hanno scelto di non pubblicare i nomi delle donne
candidate. Al posto del nome c’è scritto «Moglie di… », «Sorella di…».
In pratica sono identificabili soltanto attraverso i familiari maschi
più stretti. E non potranno essere riconosciute neppure dalla loro
immagine sui manifesti elettorali perchè è già stata o sarà sostituita
con un fiore o una colomba.
La donna
glorificata durante l’Intifada, identificata con nome e cognome da
“martire” e mostrata nei poster affissi in giro per le città, invece
secondo i leader di queste liste “indipendenti” va nascosta, resa
anonima e senza volto quando, da viva, partecipa alla vita pubblica. Di
fronte a ciò restano in silenzio i due partiti più grossi, Fatah e il
movimento islamico Hamas. E con essi l’Autorità nazionale palestinese e
il suo presidente Abu Mazen che pure hanno approvato leggi e firmato
trattati internazionali contro le discriminazioni nei confronti delle
donne.
Le quote rose (20%) sono una realtà
già da alcuni anni nei Territori palestinesi occupati ma, a quanto pare,
sono state recepite come una imposizione dal sistema patriarcale che
prova ad aggirarle assieme alle iniziative per favorire la
partecipazione delle donne in politica. «Dopo anni di lotta per tagliare
traguardi mai raggiunti da gran parte del Paesi arabi, oggi le donne di
Palestina si ritrovano a fare marcia indietro», dice con amarezza al
manifesto Amal Kreisheh, storica attivista palestinese dei diritti delle
donne. «Purtroppo le sostituzioni dei nomi non sono casi isolati –
aggiunge -, riguardano tante località anche della Cisgiordania.
Significa che non c’è riconoscimento dei diritti fondamentali della
donna da parte dei promotori di queste liste elettorali, evidentemente
appoggiate da segmenti significativi della società». Kreisheh punta
l’indice contro l’Anp e non manca di rivolgere critiche anche alla
sinistra. «L’Anp ha un atteggiamento ambiguo – spiega – da un lato
approva leggi per l’uguaglianza tra i sessi e poi non muove i passi
necessari per farle applicare e per far rispettare i diritti conquistati
dalle donne». La sinistra, aggiunge Kreisheh «si limita ad applicare al
minimo le quote rosa e non avvia una campagna ampia e incisiva a favore
dei diritti delle donne».
Le proteste non
mancano e non giungono solo dalle organizzazioni di donne. Qualcuno
denuncia «l’islamizzazione della società palestinese» e fa riferimento
alla “awra” il principio religioso che stabilisce che siano coperte
determinate parti del corpo umano. A ben vedere però la sostituzione dei
nomi delle donne candidate è figlia più di comportamenti imposti dalla
società tribale che domina soprattutto nelle zone rurali. Se è vero che
tra i giuristi islamici prevale il principio che la donna sia tenuta
coprire tutto il suo corpo, compresi i capelli, ad eccezione del viso,
delle mani e dei piedi (alcuni, soprattutto i salafiti e wahhabiti,
invocano una copertura completa), allo stesso tempo la tradizione
religiosa non presenta un divieto esplicito della pubblicazione dei nomi
delle donne. «La società patriarcale e tribale ci mostra ancora tutta
la sua forza», commenta Amal Kreisheh avvertendo che le donne
palestinesi non resteranno a guardare e continueranno a lottare per i
loro diritti.
Sulla piega che sta prendendo
la campagna per le amministrative di ottobre, interviene anche Luisa
Morgantini, ex vice presidente dell’Europarlamento e da molti anni
impegnata sul terreno dei diritti delle donne palestinesi. «Incontrando
Leila Ghanem, che è una governatrice, ho espresso la mia indignazione»
spiega Morgantini in questi giorni a Ramallah «perché tutte le battaglie
fatte dalle donne (palestinesi) per le quote rose e per essere
protagoniste anche nella vita politica vengono ora distrutte da questa
visione (della donna) che emerge da facebook e nelle liste elettorali.
Mi auguro che le proteste riescano a fermare chi vuole dare una
rappresentazione della donna solo come la moglie di questo o la sorella
di quello».
Naima Abu Taima, che si occupa
di parità di genere al Media Development Center dell’università di Bir
Zeit (Ramallah), è a favore del boicottaggio del voto da parte delle
donne. «Essere rappresentate a questo modo è umiliante, che gli uomini
vadano alle urne da soli. Noi dobbiamo farlo solo se saranni rispettati i
nostri diritti». Amal Kreisheh da parte sua ritiene il boicottaggio del
voto un punto molto delicato. «Da un lato quanto vediamo ci spingere a
non partecipare alle elezioni, dall’altro questo voto rappresenta un
momento raro di espressione del volere del nostro popolo. Un appello al
boicottaggio potrebbe non essere la scelta giusta».