il manifesto 7.9.16
Delenda Roma, la politica smarrita tra scartoffie e ossessioni
di Sandro Medici
Gli
strappi si stavano rammendando, gli avvicendamenti erano quasi
completati. Ed ecco arrivare altre turbolenze. A Roma il format a cinque
stelle scricchiola e vacilla.
Nelle stanze
del Campidoglio sibila un’aria rancorosa e inacidita, tra congiure e
misfatti, reticenze e dispetti, colpi bassi e carognate. Come in quelle
antiche corti principesche dove intrighi e tradimenti si susseguivano a
ritmo mortifero, le dispute a cui assistiamo si consumano al solo scopo
di definire poteri e linee di comando. Sfuggono infatti le ragioni
politiche che scatenano questi corpo-a-corpo. Di più: quel che sembra
assente in questi furiosi contrasti è la politica. La politica intesa
come proposta, progetto, idealità. In un lancinante vuoto dove i
soggettivismi impazzano, arbitrari e minacciosi.
Sbaglieremmo
tuttavia a stupircene. Poiché dalle sgradevoli vicende che hanno
attraversato i cinquestelle romani sembra affiorare un nuovo modello di
politica amministrativa. Orientato non più da un programma da
realizzare, obiettivi da raggiungere, ascoltando la città e dialogando
con i corpi sociali. Quanto affidato a un’oligarchia gestionale di
tecnici, magistrati, avvocati e avvocaticchi, contabili, burocrati,
consulenti, esperti di varia caratura, nonché pensionati ringalluzziti.
Un modello supportato da studi legali e agenzie di consulenza, che
indicano e selezionano, tra resoconti statistici, algoritmi, equazioni,
non disdegnando di ricorrere a più arcaiche raccomandazioni. E per
ottenere le migliori competenze non ci si risparmia, si offrono prebende
e indennità, incarichi prestigiosi e uffici luminosi, fino a comprarsi
all’asta i più preparati. Come i centravanti al calciomercato.
Il
movimento cinquestelle sta portando alle estreme conseguenze quella
perniciosa tendenza che già da tempo e in altre istituzioni è stata
sciaguratamente sperimentata. Sostituire cioè la prassi politica con la
procedura amministrativa. Delegare scelte e decisioni a figure tecniche e
rinunciare a confronti, dialettiche, sintesi. Agire con metodi
unilaterali e sbrigativi, escludendo ogni mediazione democratica. Quasi
che per governare una metropoli, un territorio sia meglio chiamare il
professore, il commercialista, il funzionario, il praticone, piuttosto
che rivolgersi agli odiati e infidi “politici”, che per definizione sono
condizionati, clientelari, se non proprio corrotti.
Ed
ecco pomposamente incedere il magistrato giustiziere che minaccia di
«cacciare tutti», il super-esperto che brandisce dossier e annuncia
«rivelazioni clamorose», il prode finanziere che «adesso i conti li
metto a posto io». Tutte persone forse rispettabili, eccellenti
confezionatori di curricula, formidabili affastellatori di carte, ma
disperatamente inclini a sentenziare, analizzare e far di conto. Cose
certo utili; ma governare è un’altra cosa. Soprattutto nelle grandi
città, nelle complessità, nelle contraddizioni, nel tessuto
sentimentale, nella gravosa umanità: in quel terribile reale, ove per
poco il cor non si spaura.
E in questa
inguardabile girandola di dimissioni, nomine e rinomine, avvisi di
garanzia e audizioni parlamentari, prim’ancora delle valutazioni
politiche, delle considerazioni critiche, s’insinua acuto e malinconico
un grande dispiacere. Nell’assistere al progressivo declino della città,
sempre più degradata e sfilacciata, polverosa e soffocante, ingrigita e
rinsecchita, spenta e incupita. Dove si aprono voragini, s’incrinano
mura e gli alberi si spezzano. Gli autobus non partono e le
metropolitane si fermano. La povertà aumenta e i servizi sociali si
estinguono. Le case restano vuote e le famiglie continuano a essere
sfrattate. Dove però ci sono i soldi per la candidatura olimpica, ma non
per finanziare i centri antiviolenza o per risanare Corviale.
Che
infelice destino per una città magnifica come la nostra capitale. In un
transito politico che di volta in volta peggiora le sue condizioni. Le
giunte di centrosinistra scivolate in un gorgo affaristico-speculativo,
l’esperienza del sindaco Alemanno rivelatasi un’incubatrice di
corruttela e malaffare, lo speranzoso avvento di Ignazio Marino
precipitato in una politica inconcludente e accantonato in uno studio
notarile. E infine l’arrivo della sindaca Raggi, sulla spinta di un
voluminoso voto popolare, che balbetta e s’accartoccia intorno alle
nevrosi ossessive di un movimento senza spessore e senza respiro,
guidato da dirigenti tanto improbabili quanto capricciosi.
Siamo alla nemesi. Si sta rovesciando il monito di Marco Porcio Catone. Delenda Roma.