il manifesto 30.9.16
È guerra nel Psoe, ma Sánchez non molla
Spagna.
In 17 dell’esecutivo del partito socialista, sui 38 ancora in funzione,
si sono dimessi. Il segretario resiste e rilancia su primarie e
congresso straordianrio a novembre
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA
via Ferraz, Madrid, sede storica del Psoe, oramai è caos. Al culmine di
uno scontro interno senza precedenti, mercoledì sera si sono dimessi 17
dei 38 membri dell’esecutivo socialista. È la risposta alla bomba
lanciata dal segretario Pedro Sánchez subito dopo la notizia dei
(pessimi) risultati delle elezioni in Galizia ed Euskadi. Per
costringere i dissidenti a lasciargli mano libera, Sánchez aveva
convocato per domani un Comitato federale. All’ordine del giorno:
primarie per l’elezione di un nuovo segretario il 23 ottobre e un
congresso straordinario a dicembre. Il tutto mentre, in assenza di un
governo, l’1 novembre scade l’attuale parlamento eletto a giugno, e le
elezioni sarebbero per il giorno di Natale (o la domenica prima, previa
leggina ad hoc).
L’obiettivo di Sánchez è stanare gli avversari,
riprendere il controllo del partito e formare un governo a qualunque
costo – la sua unica speranza di sopravvivenza politica.
Ma la
mossa è andata storta, e mercoledì mattina Felipe González, ex premier
socialista, ha dato il via all’armageddon: in un’intervista alla catena
Ser (gruppo Prisa, come el País, potente alleato dei critici di Sánchez)
lo ha attaccato frontalmente, chiamandolo bugiardo. Una violenza
inaudita, in cui il grande vecchio – ormai considerato esponente
dell’establishment più conservatore – con un lapsus è arrivato a dire
che «nonostante quello che abbiamo fatto nel paese basco», mai i
risultati erano stati così negativi. Il riferimento è alle squadracce
parapoliziesche dei Gal, della guerra sporca contro l’Eta per cui
González perse il governo nel 1996. Non aveva tutti i torti Pablo
Iglesias quando aveva avvertito Sánchez (provocando indignate reazioni
socialiste) di stare attento al presidente «della calce viva».
L’idea
degli ammutinati era costringere il segretario ad andarsene (e impedire
il Comitato federale). Loro contabilizzano anche i 3 posti già vacanti
per raggiungere la metà più uno dei dimissionari, ma quelli di Sánchez
interpretano lo statuto, vago, diversamente. E comunque le regole
prevedono la convocazione di un congresso, quello che propone Sánchez.
Sono volati stracci, con minacce di arrivare in tribunale, e reciproche
accuse di illegittimità.
Sánchez ha tirato dritto: ieri con quello
che resta dell’esecutivo socialista ha deciso di confermare il comitato
federale di domani con la proposta di primarie e congresso (ma
anticipato a novembre). Spera che la militanza lo blindi: Sánchez è il
primo segretario socialista a essere stato eletto dai militanti. La sua
ambizione – stavolta è disposto a trovare un accordo con Podemos e
persino coi nazionalisti per arrivare al governo – si scontra con le
accuse dei suoi avversari di aver preso in ostaggio il partito.
Il
segretario non molla e sfida la sua principale avversaria, la
presidente andalusa Susana Díaz, a dire se vuole l’astensione del
partito, lasciando che Rajoy formi il governo, o il no al leader
conservatore. Come se il problema socialista fosse solo questo. Intanto
lei ieri sera ha detto che vuole un congresso «dopo la formazione di un
governo».
Se il Psoe finisce per astenersi, gli ammutinati non ne
usciranno vivi. Ma se si dovesse imporre Sánchez, le ferite aperte non
si chiuderanno facilmente. Il Partido popular si frega le mani: con
elezioni anticipate o governo Rajoy, loro ci guadagneranno in ogni caso.