il manifesto 29.9.16
Hillary, «eroina» per niente innocente
di Fabrizio Tonello
Dopo
48 ore di congratulazioni a Hillary per aver «vinto» il dibattito di
lunedì sera è venuto il momento di farsi qualche domanda in più. Per
esempio: a chi parlavano i due candidati? Agli elettori incerti, quelli
capaci di verificare con i famosi facts-checkers, gli addetti alla
verifica delle affermazioni di Trump e Clinton, se i rispettivi piani
fiscali erano convenienti per loro?
No, gli elettori veramente
indipendenti equidistanti dai partiti maggiori, nell’America del 2016,
sono più rari dei panda giganti e probabilmente avrebbero diritto a
chiedere la protezione dell’Endangered Species Act. I candidati non
parlavano a loro ma ai propri sostenitori, a chi cercava conferme alle
proprie opinioni, un meccanismo psicologico ben conosciuto che il
giornalismo americano, prigioniero dei miti dell’obiettività e
dell’equilibrio, si ostina a negare. I media tradizionali si sono
sperticati in lodi di Hillary per la sua precisione, conoscenza dei
fatti, precisione nelle risposte: all’americano medio è probabilmente
apparsa invece come un robot, rigida e imbarazzata nelle risposte, il
prototipo del politico che sorride troppo e promette cose che verranno
dimenticate la sera stessa delle elezioni. Agli americani senza
educazione universitaria che vedono i propri salari stagnare da 40 anni,
e che non hanno in banca neppure i soldi sufficienti per farsi curare
se prendono una bronchite, Hillary non piaceva prima del dibattito e
nulla di ciò che ha fatto o detto lunedì sera li avrà fatti cambiare
idea.
La Clinton era già alla Casa bianca negli anni Novanta, c’è
rimasta per otto anni insieme al marito, ed è stato in quegli otto anni
1993-2001 che l’infernale meccanismo della delocalizzazione industriale
si è accelerato, creando il deserto in gran parte del Midwest operaio.
Donald Trump, nell’opinione di molti esperti, è stato un «pessimo
comunicatore», il suo linguaggio del corpo era isterico, le frasi si
accavallavano confusamente l’una sull’altra. Può darsi, ma quando ha
detto seccamente a Hillary che il trattato di libero scambio con Messico
e Canada, fortemente voluto da Bill Clinton e ratificato con i voti dei
repubblicani nel 1993, «è stato il peggior accordo mai concluso» metà
dell’America davanti ai televisori ha sicuramente applaudito. E Hillary
balbettava quando doveva spiegare la sua posizione sul nuovo trattato
con le nazioni del Pacifico, il Tpp fortemente sostenuto da Obama.
Trump
è un improbabile campione della classe operaia ma Hillary rappresenta
Wall Street, con una riverniciatura di compassione low-cost e di
argomentazioni riprese dalla campagna di Bernie Sanders. La televisione
non mente e le sue risposte prefabbricate apparivano per quello che
erano: il frutto di un’accurata pianificazione. Lei è il candidato
preparato, qualificato, affidabile, che si contrappone al dilettante
Trump, che non ha mai avuto un incarico politico in vita sua e che, se
lo avesse, probabilmente si annoierebbe a morte.
Una sceneggiatura
forse abile ma difensiva. Se parlassimo di un campionato del mondo di
scacchi diremmo che Hillary gioca per fare patta, contando su un errore
dell’avversario quando la partita sembra inchiodata sul pareggio. E la
storia degli scacchi, come quella della Prima guerra mondiale, ha dato
spesso ragione a chi era più razionale e preciso nell’alzare barriere
difensive.
Ci sono anni, però, in cui le fortificazioni più solide
cadono in maniera apparentemente inspiegabile e il 2016 potrebbe essere
uno di questi. Non è l’anno dell’esperienza, del buon senso, del
rassicurante «usato sicuro».
È l’anno dei forconi, del caos, delle
proposte impossibili e delle invettive infami. E quel che è peggio, tra
gli americani e il fascismo di Trump c’è solo lei, una signora anziana e
sovrappeso, logorata da una vita in politica, piena di buoni sentimenti
ma anche figlia di tutti i compromessi degli ultimi 40 anni. Hillary
Clinton, con il volto rugoso e segnato della politica contemporanea,
baluardo contro la xenofobia e amica di Wall Street, un’eroina tragica, e
per nulla innocente, della politica americana.