il manifesto 29.9.16
Chi può essere l’erede della «Bernie Revolution»
Stati uniti. Scettica su Clinton e tentata dall’astensione, la sinistra radicale ora deve scegliere
di Francesco Massimo, Michela Pusterla
Negli
ultimi anni, all’ombra dei riflettori sulla politica ufficiale, un
ciclo di lotte ampio, polifonico e innovativo ha attraversato la società
americana: Occupy Wall Street, Black Lives Matter, la Fight for 15$, le
mobilitazioni studentesche per l’educazione superiore gratuita, la
People’s Climate March, gli scioperi dei lavoratori dei servizi e
dell’educazione, la battaglia del Wisconsin e, nell’ultimo mese, le
lotte ambientali dei Nativi in North Dakota e le proteste nelle carceri
americane. La candidatura di Sanders alle primarie democratiche aveva
permesso di far convergere una parte di questi movimenti e di dar loro
una voce e una prospettiva politica comune. La sconfitta di Sanders e il
suo endorsement a Clinton hanno lasciato aperta la corsa per la sua
eredità simbolica ed elettorale.
Chi raccoglierà il testimone
della political revolution? Come si stanno comportando i militanti e i
gruppi che si erano mobilitati? Per chi voteranno? Tra le opzioni, c’è
quella di seguire lo slogan «Jill, not Hill!», lanciato da alcuni
berners alla Convention, e votare per il Green Party. Il Green Party è
stato fondato nel 2001 dall’Associazione dei Partiti Verdi e ha preso
lentamente il posto dei Greens, il partito degli attivisti verdi degli
anni Ottanta. Con tendenze alterne, il Green Party ha scelto negli anni
di coniugare le strategie dell’antipolitica e l’azione istituzionale.
Ideologicamente,
i Verdi americani approvano i quattro pilastri del movimento verde
internazionale: ecologia, giustizia sociale, democrazia partecipativa,
pace/non violenza, ai quali aggiungono uguaglianza di genere,
antirazzismo e diritti Lgbtiq. Geograficamente, i voti verdi si trovano
soprattutto nella West Coast, nella zona dei Grandi Laghi e nel Nordest,
e raccolgono soprattutto i white liberals dei ceti medio-alti.
Nella
memoria politica della sinistra americana, il Verdi pagano il
contributo indiretto alla vittoria di George W. Bush nel 2000, quando
l’exploit del verde Ralph Nader (quasi tre milioni di voti) segnò la
sconfitta di Al Gore. Da allora, la sinistra ha guardato al Green Party
con diffidenza, e il 2.74% del 2000 non è più stato raggiunto.
Alle
presidenziali 2016, i Verdi, auto-definitosi un partito eco-socialista,
candidano l’attivista ambientale e medico Jill Stein, già candidata nel
2012 (0.36%) e, come vice-presidente, l’attivista Ajamu Baraka. Nel
febbraio 2015 (tre mesi prima della candidatura ufficiale di Sanders),
Stein dichiarava: «la vecchia politica sta collassando, e c’è un vuoto
da riempire: le elezioni 2016 sono un’incredibile opportunità per
riempirlo». I Verdi presentano un Green New Deal, che prevede la totale
riconversione alle energie rinnovabili entro il 2030, nuove leggi
sull’immigrazione e il sistema scolastico, una riforma sanitaria, da
finanziare attraverso il taglio netto alla spesa per la difesa.
Nelle
Presidenziali 2016, stando ai sondaggi, si attesteranno poco sotto il
3%. Eppure, considerato lo spazio per una progressive politics e il
malcontento generale verso il bipartitismo il 3% non è un risultato
eccezionale. Le ragioni di questa debolezza sono varie.
Stein
sottolinea la quasi inesistente copertura mediatica, data sia dalla
scelta di una campagna a basso costo sia dalla censura dei media
generalisti, che – al contrario – stanno dando una certa attenzione
all’altro candidato minoritario, il libertario Gary Johnson. Ma c’è
altro. In primo luogo, il Green Party non ha un insediamento demografico
solido, è poco presente ai livelli istituzionali intermedi e non gode
di buona stampa (il Washington Post ha definito il programma «una
favoletta») né di molta credibilità nell’opinione pubblica, che spesso
attribuisce ai Verdi posizioni stravaganti o «complottiste». In secondo
luogo, nel bipartitismo first-past-the-post americano, il voto a un
partito terzo è tradizionalmente penalizzato – il che dà spazio al
ricatto del «voto utile» – e la scelta di costituire un terzo polo alle
Presidenziali non premia.
C’è una ragione strategica che spiega il
successo relativo della candidatura di Sanders e le difficoltà di
Stein: Sanders ha sfruttato l’opportunità di visibilità di una
candidatura all’interno del Partito democratico e ora ha deciso di
puntare tutto sulle rappresentanze locali e statali, avendo capito che
le Presidenziali non sono ora un terreno sul quale la sinistra può
vincere.
Esiste quindi un’incompatibilità di fondo tra il
movimento sanderista da un lato e il Green Party dall’altro: il primo è
cresciuto nell’antipolitica e nell’astensionismo, si riconosce nel
populismo di sinistra e ha una vocazione maggioritaria. I Verdi,
invece, hanno una storia da partito sotto l’1%, una vocazione
minoritaria e un elettorato storicamente bianco, istruito e
tendenzialmente benestante.
Negli Stati uniti della identity
politics, intorno al vecchio senatore bianco del Vermont si era radunato
un popolo variegato per origine, etnia, classe sociale. Una parte di
questo popolo – singoli cittadini e organizzazioni come Socialist
Alternative – andrà a votare per Jill Stein. La grande maggioranza però
marcerà verso l’astensione, verso Clinton e qualcuno, non troppo
inaspettatamente, verso Johnson o addirittura Trump. La political
revolution non passerà dalla Casa bianca, almeno per ora.