il manifesto 27.9.16
Come ti inganno l’elettore fin dentro il seggio
di Gaetano Azzariti
Il
quesito predisposto dall’Ufficio centrale della Cassazione per il
referendum non è neutro. È vero che esso si “limita” a riprodurre il
titolo della legge approvata dal Parlamento, ciò non toglie che quella
formulazione non doveva essere prescelta. Per diverse e buone ragioni.
Anzitutto perché – com’è noto – i “titoli” delle leggi non sono votati
dal parlamento sono invece formulati da chi ha presentato il testo, nel
nostro caso da Renzi e Boschi. Dunque da una parte interessata a
conseguire un certo esito del referendum.
Se – come le regole di
drafting imporrebbero e com’è sempre stato in passato – il titolo si
fosse limitato a dar conto dell’oggetto della riforma il fatto non
sarebbe stato rilevante. Non è però questo il nostro caso, poiché oltre
all’“oggetto” solo parzialmente indicato, si richiamano impropriamente
anche gli auspicati “scopi” e gli eventuali “effetti” della riforma.
Giusta – ma non sufficiente – l’indicazione che la riforma riguarda il
superamento del bicameralismo paritario, la soppressione del Cnel, la
revisione del titolo V; ingannevole l’ulteriore evidenziazione del
contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e quella della
riduzione del numero dei parlamentari. Questi due ultimi sono scopi o
effetti che interpretano la riforma secondo gli auspici dei suoi
proponenti. Essi possono essere proposti come argomenti “politici”
(ovvero retorici), ma non hanno nulla di oggettivo. In ipotesi, si
potrebbero ben sottolineare non solo i risparmi ma anche i costi che
questa riforma imporrà. Attrezzare il Senato perché esso possa svolgere
le impegnative funzioni che la riforma introduce non sarà a costo zero.
Un aggravio di spesa discenderà, ad esempio, dalle nuove competenze
relative all’attività di valutazione delle politiche pubbliche e
l’attività della pubblica amministrazione, di verifica dell’impatto
delle politiche dell’Unione europea sui territori e l’attuazione delle
leggi dello Stato. Ed è una previsione legittima quella che fa ritenere
che alla fine i costi di funzionamento delle istituzioni supereranno le
riduzioni di spesa. Tutto ovviamente è lasciato al futuro e al giudizio
degli elettori. Per questo l’indicazione nella scheda di una sola
prospettiva possibile appare sbilanciata. Così anche la riduzione del
numero dei parlamentari è solo un effetto parziale, peraltro assai
contestato nella sua assolutezza. Secondo alcuni ben più rilevante –
riguardando l’assetto complessivo dei poteri e non il singolo organo –
sarebbe l’effetto di squilibrio che si verrebbe a determinare tra i due
rami del parlamento. Aver reso assoluto un elemento (la riduzione dei
parlamentari) senza indicare anche i possibili limiti e scompensi che
possono conseguire non fa giustizia dell’obiettività del quesito.
La
formulazione è inoltre incompleta con riferimento all’oggetto. Si sono
omesse, infatti, parti della riforma indiscutibilmente assai
significative. Non si richiamano le modifiche che incidono sulla Corte
costituzionale (composizione e competenze), quelle che modificano le
modalità d’elezione del presidente della Repubblica, le disposizioni
relative ai diversi iter di formazione delle leggi, la decretazione
d’urgenza, il voto a data certa, nulla sulle nuove forme di democrazia
diretta. Anche su queste parti andremo a votare ma dalla lettura della
scheda referendaria non risulta.
La formulazione del quesito è
stata indicata dall’ufficio centrale presso la Corte di Cassazione. In
applicazione della legge? Qui si apre una questione complessa di
interpretazione delle norme vigenti e dei precedenti. Da un lato,
infatti, nei due referendum costituzionali che si sono svolti il quesito
aveva riportato i titoli delle leggi, senonché – a differenza di oggi –
essi si limitavano all’indicazione dell’oggetto della riforma nel suo
complesso (riforma del Titolo V e riforma della II parte della
costituzione).
Dunque, non si potevano sollevare questioni
sostanziali. La norma di legge vigente in materia (l’articolo 16 della
legge 352 del 1970) peraltro è piuttosto chiara sia nello spirito che
nella lettera. Nel caso di revisione della costituzione (a differenza
delle altre leggi costituzionali, che hanno necessariamente un titolo
proprio), come ha rilevato di recente Paolo Carnevale, il quesito deve
indicare espressamente gli articoli della costituzione che si vogliono
modificare. È vero che i precedenti richiamati del 2001 e del 2006 non
sono in linea, allora prevalse una ragione sostanziale: anziché un
elenco interminabile di articoli è apparso più opportuno una indicazione
complessiva e neutra.
Ma di fronte a un titolo fuorviante la
rigorosa applicazione della lettera della legge sarebbe stata
necessaria. Nel caso dei referendum abrogativi, proprio per evitare
schede referendarie troppo lunghe e incomprensibili, s’è adottata la
misura di far elaborare all’ufficio centrale un titolo autonomo e
riassuntivo «al fine dell’identificazione dell’oggetto del referendum»
(articolo 1 della legge 173 del 1995), per il referendum costituzionale
non so se si poteva operare in analogia. Quel che è certo è però che
difronte al vulnus di beni costituzionalmente protetti (la corretta
espressione della sovranità popolare, il regolare svolgimento
competizione referendaria) sarebbe stato meglio impedire che la scheda
diventasse l’ultimo tentativo di indirizzare impropriamente la scelta
dell’elettore.