martedì 27 settembre 2016

il manifesto 27.9.16
Nelle mani dell’impresa
In Italia niente investimenti pubblici. L’economia come regno dell’offerta che si affida a liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni, flessibilizzazioni dei mercati del lavoro, riduzioni delle tasse e sottovaluta del tutto i vuoti di domanda effettiva
di Laura Pennacchi

Di fronte alla contrazione del commercio mondiale, il rallentamento dell’economia globale, i limitati risultati in materia di maggiore sviluppo conseguiti da politiche monetarie mai così permissive, negli osservatori internazionali – compresi Fmi e Ocse – si fa strada la convinzione che oggi sono gli investimenti pubblici la variabile cruciale.
In due articoli sul Washington Post e sul Financial Times Larry Summers, già ministro del Tesoro americano e ora consigliere di Hillary Clinton, argomenta che «poiché diventa sempre più chiaro che la crescita non tornerà spontaneamente ai suoi livelli pre-crisi, si impone l’urgenza di un’azione politica» in termini di investimenti pubblici da finanziare anche in deficit (specie nella manutenzione straordinaria di ponti, strade, scuole), avvisando che, dati gli attuali bassissimi tassi di interesse, il costo dell’indebitamento pubblico può essere molto inferiore all’ammontare dei sussidi agli operatori privati che altrimenti sarebbe necessario erogare. L’urgenza degli investimenti pubblici è ormai riconosciuta dal Giappone all’Australia, dalla Cina agli Usa, dove peraltro essa è sostenuta con audacia intellettuale nel programma elettorale dei democratici.
Un’audacia che porta i democratici anche a identificare nell’apporto dell’immigrazione il contrasto a quel declino demografico destinato altrimenti a operare come uno degli elementi di radicamento della temuta “stagnazione secolare”.
Ma l’Europa resiste. E resiste, in un certo senso, anche l’Italia, visto che, come palesa la Legge di bilancio per il 2017, il premier Renzi non affianca alla sua sacrosanta polemica contro l’austerity europea un vigoroso rilancio degli investimenti pubblici, a cui preferisce il ricorso a una miriade di bonus monetari e di incentivi fiscali, in ossequio al mantra – per la verità di ispirazione bushiana e repubblicana – della “riduzione della tasse a tutti i costi”, pure a costo, per esempio, di deprivare ulteriormente la sanità. Anche “Industria 4.0” del ministro Calenda, frenato dalla paura di sposare “velleità dirigistiche” – paura che però può indurre l’operatore pubblico ad abdicare alle proprie responsabilità in favore dei “desiderata delle imprese” -, è piena prevalentemente di stimoli fiscali, incentivi indiretti orizzontali, misure per le liberalizzazioni e per la competitività.
Perché questa resistenza alla crucialità degli investimenti pubblici da parte dell’Europa e dell’Italia? Non si dica che l’Europa e l’Italia non si possono consentire le politiche di bilancio espansive che hanno caratterizzato gli Usa (finanziate con le tasse – che i democratici si propongono di innalzare per benestanti e imprese – e con cospicuo deficit, nel 2009 portato al 12% del Pil americano). L’Unione europea, soggetto ad ampia base sovranazionale, se le potrebbe benissimo permettere proprio per la scala continentale a cui può operare, se non si fosse autoimprigionata nel fiscal compact. E i singoli soggetti nazionali hanno spazi per praticare politiche espansive, tanto è vero che se ne sono già serviti: l’Italia negli ultimi due anni ha utilizzato ben 30 miliardi di euro (di cui una gran parte come margini di “flessibilità”, vale a dire come deficit) per finanziare cancellazione di Imu e Tasi anche per i grandi patrimoni, decontribuzioni a iosa, defiscalizzazione della produttività, riduzioni delle imposte sulle imprese, ecc. – cioè stimoli indiretti sotto forma prevalente di benefici fiscali -, risorse che almeno in parte avrebbero potuto essere canalizzate in un piano di investimenti direttamente volto a creare occupazione per giovani e donne.
Dunque, la resistenza europea a riconoscere la crucialità degli investimenti pubblici ha una ragione profonda, che va esplicitata e dibattuta, a mio parere di ordine soprattutto teorico e culturale. Si tratta della soggezione al dogma ordoliberale di marca tedesca che, considerando il settore privato naturalmente in grado di generare il mix ottimale di risparmio e di investimenti, vede i disavanzi del settore pubblico e le relative spese pubbliche “spiazzanti” l’investimento privato e per questo prescrive all’operatore pubblico di astenersi il più possibile dall’intervenire in modo palese – salvo lasciargli molte forme “nascoste” di intervento – e sancisce il primato del pareggio di bilancio. Ciò porta a una forma di supply side economics (economia dal lato dell’offerta) in cui vengono del tutto sottovalutati i vuoti di domanda effettiva, c’è ben poco spazio per gli investimenti pubblici, le misure a cui ci si affida sono liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni, flessibilizzazioni dei mercati del lavoro, riduzioni delle tasse. Vi concorre anche un lettura della rivoluzione tecnologica in corso come “guidata dall’offerta”, un’offerta che, lungi dal dover essere sollecitata o tanto meno indirizzata, ha bisogno solo di incontrare il suo consumo, per cui l’unica cosa che conta è dare incentivi indiretti alle imprese – richiesti ossessivamente dal presidente di Confindustria – e potere d’acquisto (cioè trasferimenti monetari) ai consumatori.
Non si può non vedere che siamo di fronte a questioni rilevanti, decisive nel modellare il profilo ideale e culturale – di destra o di sinistra – delle forze in campo. Intanto il dogma ordoliberale dell’investimento naturalmente ottimale del settore privato è contraddetto dalla realtà odierna in cui una marea di liquidità non è sufficiente, in assenza di sostenute prospettive di crescita e di profitti, a spingere i privati ad investire. Inoltre, poiché è sbagliato contrapporre domanda e offerta che vanno invece considerate congiuntamente, bisognerebbe cogliere la natura di “cerniera” fra domanda e offerta che è propria degli investimenti, di quelli pubblici in particolare. Infine, di fronte alle assurdità a cui danno luogo casi di innovazione come l’”auto senza guidatore” (non “scelta” dai consumatori ma imposta dalle grandi case produttrici e in cui sono state profuse non poche risorse pubbliche), emerge con chiarezza la validità della tesi del grande economista Antony Atkinson. Che è la seguente: è necessaria una “direzione” dell’innovazione per orientarla verso finalità sociali utili e bisogni reali insoddisfatti, da affidare a un operatore pubblico sì in interazione con una pluralità di altri soggetti, ma fortemente animato dalla volontà di esercitare un “ruolo strategico” e far rinascere un autentico spirito progettuale.