il manifesto 27.9.16
Pietro Ingrao
Stato e democrazia
Parlamento e sovranità popolare
«Ho
potuto verificare, da presidente della Camera, quanto fosse difficile
far funzionare il Parlamento. Tuttavia non mi persuade la riduzione a
Palazzo a dell’Assemblea, e degli eletti a casta»
Tra il dicembre
del 2009 e l’estate del 2012 Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno
intrattenuto una fitta serie di conversazioni con Pietro Ingrao che ci
ha lasciato un anno fa, il 27 settembre del 2015. Sono state registrate e
trascritte per realizzare un volume. Alcuni capitoli sono pronti per la
stampa, altri attendono una revisione.
Nel marzo del 2011, frutto
di quegli incontri, fu pubblicato Indignarsi non basta presso l’editore
Aliberti, che ebbe grande diffusione ed è stato tradotto in diverse
lingue.
Gli stralci qui proposti sono invece inediti, risalgono a
un incontro seguente della primavera del 2011. Li abbiamo scelti, in
occasione dell’anniversario della sua scomparsa, per l’attualità che i
giudizi di Pietro Ingrao rivestono riguardo alle discussioni su
Parlamento e legge elettorale.
Ci accade ogni giorno di
essere presi nelle maglie di una struttura artificiale. E questo sembra
esserci “da sempre”. L’ordine ti prende e stringe fin dalla nascita,
come se fosse un dato naturale appartenervi. “Stato” è il nome che diamo
ad un insieme composito, forse per nulla ordinato e coerente, di
regole, istituti, funzioni, dentro il quale svolgiamo le nostre vite.
La
norma non realizza una parte insopprimibile della relazione e
dell’esperienza umana. Che non può essere rimossa, relegata alla sfera
privata. Non può essere cancellata, sia pure come eccedenza e differente
dicibilità, nell’agire politico, o in quella sua peculiare
manifestazione che è l’atto legislativo. Se non altro come
consapevolezza del limite, come dubbio sulla pretesa di imparzialità
della legge. Personalmente non mi sono affidato in primo luogo alla
scrittura di norme. Quando dico “volevo la luna”, nomino l’esigenza di
un salto, prima di tutto nel linguaggio e nelle relazioni. Nella
politica è questo che mi coinvolge: nella vita umana le leggi contano, e
dunque l’attività legislativa è importante, non può essere
sottovalutata. Ma c’è un di più nella politica che è comunicazione,
relazione. Una relazione che assume le forme più strane, particolari.
Questo in me si è unito spesso con… come lo vogliamo chiamare? ma sì,
chiamiamolo amore per la natura. I cieli, le inclinazioni del tempo che
scorre, l’alzarsi della luna nelle notti di estate: mi ha sempre
trascinato, mi ha dato molta emozione.
Sono stato immerso,
incollato alla politica, nel suo farsi quotidiano, ma ho sempre
avvertito chiaramente una riserva interiore. Lo testimonia la poesia che
amo terribilmente… c’è un di più che la politica non esaurisce in sé
stessa. E dal quale, tuttavia, non può prescindere.
Non credo alla
separazione tra sfere distinte, segnate da confini definiti: privato e
pubblico, interiorità ed esteriorità, individuo e collettivo, società
civile e Stato. Non è così nella vita di ognuno di noi e la politica non
può non intrecciarsi alla complessità dell’essere umano. Anche se non
potrà mai comprenderla e darne conto, per intero.
Conosco bene la
realtà del sistema istituzionale e dunque so quanto siano fondate le
ragioni della critica. So quanto di tecnico e separato vi è nel
Parlamento, e quanto questo contrasti con il suo ruolo costituzionale,
di esercizio della sovranità popolare. Ho potuto verificare, soprattutto
da presidente della Camera, quanto fosse difficile far funzionare il
Parlamento, quale luogo effettivo di formazione delle scelte, di
mediazione e di sintesi per le decisioni. Tuttavia non mi persuade la
riduzione a “Palazzo” dell’Assemblea elettiva, e degli eletti a “casta”:
un mondo separato, chiuso nei suoi privilegi e nei suoi meccanismi di
autoconservazione.
La rappresentanza, di questo sono convinto, non
è mai mera delega. È una relazione attiva, quali che siano
concretamente le sue modalità. Ed è qui il problema. Se è una relazione
costruita sullo scambio di interesse, o sul messaggio mediatico. O,
viceversa, su una condivisione di esperienze, un dialogo sulle idee, in
qualche modo un patto tra soggetti, diversamente coinvolti nella
politica. Nella Costituzione è scritto che il parlamentare rappresenta
la nazione, senza vincoli di mandato. Nella storia politica di cui sono
stato partecipe sono stati i partiti a dare costrutto pratico,
materiale, alla rappresentanza.
Crisi dei partiti di massa e crisi
della rappresentanza sono due facce della stessa medaglia. O
restituiamo sostanza e trasparenza alla relazione tra rappresentanti e
rappresentati, e le Assemblee elettive tornano ad essere un luogo di
confronto che conosce momenti di conflitto e momenti di mediazione e
sintesi, oppure si acuirà la divaricazione tra procedure del consenso e
sedi della decisione. Da un lato la personalizzazione della politica,
affidata a poche figure di leader e al loro messaggio, dall’altro una
miriade di tecnici, concentrati su questioni settoriali, nei vari
gabinetti e vertici di concertazione corporativa.
È davvero
singolare che mentre si invoca ad alta voce una semplificazione della
politica ed un rapporto più diretto ed immediato dei cittadini con chi
li governa, lo Stato si dilata. Cresce e si articola attraverso un
insieme di apparati e organismi più o meno informali, in ogni modo
sottratti ad ogni forma controllo e di trasparenza democratica. Ognuno
di noi ne ha esperienza diretta.
Lo Stato è un prisma di specchi
nel quale si rifrange ogni giorno, sui diversi aspetti della vita, una
particolare modalità del potere politico. E né come individui, né come
gruppi sociali possiamo fronteggiare questa influenza, senza le
necessarie mediazioni. A questo sono servite le istituzioni della
rappresentanza, sociale e politica. Francamente non vedo altri
strumenti, altre forme politiche che possano svolgere questa funzione,
in modo più efficace.
Nella Costituzione è il Parlamento, non il
governo, a rappresentare la sovranità popolare. E’ vero, nei fatti ha
prevalso una diversa, perfino opposta, concezione politica. Ma i guasti
che ha prodotto, di inefficienza e degenerazione, sono ormai cronaca
quotidiana. Sono stato sempre convinto che la prima riforma è il
monocameralismo. Una platea di mille membri non può funzionare. Più alto
è il numero, più cresce a dismisura la lentezza e l’inefficienza
dell’istituzione. Se riduci il numero dei parlamentari ed hai una sola
sede rappresentativa la selezione dei deputati corrisponderà più a
criteri politici che non ai mille rivoli degli interessi corporativi e
delle clientele locali. Non è la sola riforma da fare. Anche la legge
elettorale deve essere adeguata alla centralità dell’istituzione
rappresentativa. Il modo in cui si formano le Assemblee elettive orienta
le scelte dei partiti, il loro modo di organizzarsi, di scegliere i
propri dirigenti, di rivolgersi all’opinione pubblica e costruire
partecipazione e consenso.
Democrazia è parola che uso con
sobrietà. Tanto più oggi. Ma non so ridurre la democrazia a mera
procedura di legittimazione dei governanti. Se guardo al modo in cui ho
agito politicamente la valorizzazione dell’istituto rappresentativo è un
punto fermo. Sono stato Presidente della Camera in anni cruciali di
transizione. Ho visto affermarsi culture e pratiche di frantumazione e
scomposizione del sistema politico ed istituzionale. Si avvertiva già
con forza la spinta verso il decisionismo e la governabilità assieme a
quella, apparentemente opposta, alla proliferazione di sottosistemi, al
peso crescente degli apparati e delle burocrazie. Mi sono convinto che
non dipendevano da condizioni contingenti, ma avevano radici profonde.
Per
capire ho ritenuto necessario studiare, ho rinunciato alla Presidenza
della Camera e sono andato a presiedere il Centro studi per la Riforma
dello Stato. Vorrei fosse chiara qual è stata la ragione di fondo che mi
ha spinto: il coinvolgimento delle classi popolari nella formazione
delle scelte, costruendo l’indispensabile raccordo tra la loro azione
politica e le istituzioni. Come si può realizzare questo coinvolgimento,
se non si assicura trasparenza e libertà di confronto nelle Assemblee
elettive? Come possono, altrimenti, esercitare un effettivo potere, a
fronte della concentrazione e specializzazione dei poteri economici e
finanziari, militari e burocratici, tecnologici e dell’informazione? In
quel breve testo, Indignarsi non basta, riflettevo sulla mancanza di un
comune collante politico.
Cambiano ovviamente le modalità con cui i
poteri agiscono per dividere e frantumare, ma il deficit di
rappresentanza ha un peso rilevante nella perdita di coesione sociale.
In questo trovo conferma di una mia convinzione di fondo. Se la
democrazia non si organizza e non si dota di poteri effettivi anche i
conflitti sociali cambiano natura, muta e si restringe il senso di cosa è
politica. Non dimentico quanto fosse acuta, drammatica, la
preoccupazione nel Pci che si riproducesse la frattura tra le classi
popolari e le classi dirigenti, che la rivolta sociale assumesse le
forme del “sovversivismo”. Se il Pci ha avuto una funzione nella storia
politica di questo paese è stato quello di aver lavorato tenacemente a
costruire legami tra le classi popolari e le istituzioni democratiche.
Non sempre ci siamo riusciti, ma non è arretrando da questo sforzo che
si troveranno alternative ai nostri limiti e sbagli.