il manifesto 24.9.16
Da Homs ad Amman, accolti dalla Palestina
Profughi
. Decine di famiglie di rifugiati siriani hanno trovato accoglienza a
Nasser, un campo palestinese non riconosciuto dove da decenni vivono
migliaia di profughi della Nakba e nella Naksa. Intanto la Giordania
inasprisce le misure che frenano l'afflusso di nuovi profughi
di Michele Giorgio
AMMAN
«È stato un viaggio lungo, durato tre mesi, da Homs fino alla frontiera
con la Giordania«. Firas Hussein, 47 anni, parla a bassa voce, fissando
un armadietto malandato nella stanza, come se il film di quella fuga
dalla guerra, dalla morte, gli scorresse all’improvviso davanti agli
occhi. «Ogni giorno percorrevamo qualche chilometro con trasporti di
fortuna o a piedi – racconta – i combattimenti e le sparatorie
bloccavano le strade. Molte notti le abbiamo trascorse in case
semidistrutte, abbandonate. Quando abbiamo visto la frontiera e poi
Zaatari (il più noto dei campi per profughi siriani in Giordania, ndr)
pensavano di aver raggiunto il paradiso. Invece era l’inferno, la vita
lì era impossibile. Dopo qualche giorno siamo scappati e siamo venuti
qui, nel campo di Nasser, dove ci hanno accolto i fratelli palestinesi».
Hussein,
sua moglie e i suoi figli sono una delle tante di famiglie siriane che
hanno trovato una casa a Nasser, un campo palestinese non riconosciuto
alla periferia estrema di Amman dove vivono migliaia di rifugiati della
Nakba (1948) e della Naksa (1967). Uomini, donne e bambini che godono di
pochissimi servizi. Le Nazioni Unite garantiscono aiuti umanitari, la
scuola per i bambini e poco più. Per il governo giordano, il campo di
Nasser di fatto non esiste, è solo un ammasso di case alla periferia
della capitale. In queste povere abitazioni, in queste stradine strette e
sporche, camminano ora anche Firas Hussein, i suoi familiari e tanti
siriani scappati dalla guerra.
Si apre la porta della stanza,
piano piano. Si sentono voci di donne. Una bambina fa capolino, poi
scappa via. «Ad Homs avevamo una abitazione vera, qui viviamo come
possiamo, sopravviviamo grazie a loro», prosegue Firas, indicando con un
cenno della testa Abu Mujahed e Abu Mahmoud, seduti davanti a lui,
palestinesi che a Nasser ci sono nati e cresciuti e forse ci moriranno
senza tornare nella loro terra. «Non abbiamo soldi – prosegue Firas –
con il contributo che ci passano le organizzazioni umanitarie paghiamo
l’affitto e compriamo qualche scatoletta, un po’ di riso, patate…Non ho
vergogna ad ammettere che delle volte cerco di recuperare qualcosa dal
cassonetto dei rifiuti giù sulla strada principale». Il suono lontano di
una campanella segnala la fine delle lezioni nella scuola dell’Unrwa. I
bambini come stormi di uccelli si disperdono veloci nelle strade del
campo. A scuola in Giordania ora ci vanno anche i piccoli siriani. Il
governo ha dato il via libera dopo aver ottenuto assicurazioni di
ulteriori finanziamenti al regno hashemita. E’ un punto sul quale re
Abdallah e altri esponenti dell’esecutivo battono molto in sede
internazionale. «I nostri bambini possono andare a scuola, hanno la loro
vita. Invece noi adulti non possiamo lavorare, il governo lo vieta, ed è
dura quando devi dare da mangiare ad una famiglia. La carità non
basta», commenta Firas.
Nonostante il divieto i circa 700mila
profughi siriani in Giordania fanno di tutto per lasciare i campi e per
raggiungere una città o uno dei 125 insediamenti informali nei
governatorati settentrionali di Mafraq e Irbid, alla ricerca di un
lavoro. Tanti preferiscono andare ad Amman, dove riescono a trovare più
facilmente occupazioni in nero entrando però in conflitto con i
disoccupati giordani. Tareq Barakat, 19 anni di Deraa, fino a qualche
settimana fa viveva a Azraq, nel deserto orientale della Giordania,
destinato a diventare il campo più grande con una popolazione totale di
130.000 profughi.»Ad Azraq stanno allestendo alloggi prefabbricati e
portano roulotte – riferisce Barakat – presto ci saranno anche due
scuole e un ospedale ma per me è solo una grande prigione. Esercito e
polizia intimano di non uscire alla gente, di non lasciare il campo.
Stando lì ho capito che sarei rimasto a marcire e sono scappato, perchè
voglio lavorare e non passare il tempo su di un materasso aspettando che
finisca la guerra in Siria». Anche Tareq Barakat vive a Nasser.»Non
posso permettermi di pagare un affitto ad Amman e qui ho trovato una
famiglia (palestinese) che mi ospita per pochi dinari». Il giovane
racconta di sparatorie, esecuzioni sommarie, di distruzioni immense in
Siria. Ma non ha alcuna voglia di partire per l’Europa come hanno fatto
tanti altri siriani.»Voglio tornare lì, in Siria, voglio tornare a
Deraa», dice alzando gli occhi al cielo.
Chi è riuscito a
raggiungere Amman si reputa fortunato, nonostante le difficoltà e i
divieti delle autorità. A nord la Giordania ha deciso di chiudere i
confini, ha detto basta ad altri profughi e non lascia avvicinare i
giornalisti, ufficialmente per ragioni di sicurezza dopo l’attentato
suicida compiuto dall’Isis che ha ucciso sette guardie di frontiera
vicino Rukban, lo scorso 21 giugno. Un passo catastrofico per i 75mila
rifugiati che in quella zona vivono intrappolati in una terra di
nessuno. Un recente rapporto di Amnesty International, che include
immagini riprese dai satelliti, rivela la crescita delle dimensioni di
Rukban. Se un anno fa c’erano 363 tende e altri rifugi di fortuna,
adesso se ne contano oltre 8mila. La popolazione ha difficoltà ad
accedere al cibo e cure mediche e vive in precarie condizioni
igienico-sanitarie. L’epatite ha ucciso 10 profughi nel mese di
giugno.»La situazione del campo – ha commentato Hassan Tirana, di
Amnesty – è una fotografia cupa delle conseguenze del fallimento della
condivisione delle responsabilità circa la crisi globale dei rifugiati.
Per effetto di questo fallimento molti paesi confinanti con la Siria
hanno chiuso le loro frontiere ai profughi».
Le cose non vanno
molto meglio a Zaatari, dove in passato gli abitanti hanno protestato
con forza contro le condizioni di vita. Governo e monarchia confermano
la linea dura che maschera la difficoltà di trovare una risposta
adeguata alle tensioni tra profughi e cittadini giordani già
insofferenti verso i rifugiati palestinesi che pure vivono nel Paese da
decenni.»Da un punto di vista sociale sono cambiate tante cose negli
ultimi 15 anni» spiega l’analista Mouin Rabbani»dopo la guerra e
l’occupazione anglo-americana dell’Iraq, la popolazione giordana accolse
centinaia di migliaia di profughi iracheni. Non li amava però li
accettava anche perché molti tra questi erano benestanti, portarono con
loro tanti soldi e procurarono persino occasioni di lavoro ai giordani. I
siriani sono più simili ai giordani degli iracheni ma la gente vuole
cacciarli via lo stesso perché, essendo poveri, sono pronti a fare ogni
lavoro togliendolo in teoria ad un giordano».
Nessuna tensione tra
palestinesi e siriani a Nasser. «Penso che in situazione del genere
dare una mano a chi ne ha bisogno sia prioritario – dice Abu Mujahed –
Ed è questo che la gente del campo sta facendo con generosità. Con i
nuovi arrivati talvolta emergono differenze, opinioni politiche
diverse…Ad esempio io non credo che quella in corso in Siria sia una
rivoluzione genuina, per me è un complotto di Israele e Stati Uniti,
mentre Firas (Hussein) pensa che sia giusto abbattere Bashar Assad.
Questo però non impedisce un rapporto sereno tra di noi, Siamo entrambi
profughi». Abu Mujahed, indossa una uniforme militare e al collo porta
una vistosa kufiye palestinese. Si augura che il mondo torni ad
occuparsi della questione palestinese.»Adesso tutti parlano dei profughi
siriani ed è giusto così. Hanno la priorità – sottolinea il palastinese
– però non dovete dimenticarci. Se i siriani hanno diritto di tornare
alle loro case, nella loro terra, quel diritto lo abbiamo anche noi
palestinesi».