il manifesto 24.9.16
I signori della guerra non vogliono la tregua
Siria.
 Quali sono gli obiettivi delle potenze regionali e globali e perché i 
loro interessi non contemplano un cessate il fuoco. Escalation militare 
ad Aleppo: il governo lancia una nuova offensiva
di Chiara Cruciati
L’unico
 output della tregua è l’escalation militare: a suggellarla è stato 
giovedì sera l’esercito del presidente Assad che ha lanciato una nuova 
controffensiva su Aleppo. Mentre all’Onu i 23 paesi dell’International 
Syria Support Group chiudevano il meeting con un nulla di fatto, sul 
sito del governo appariva un messaggio ai residenti: state lontani dalle
 postazioni dei gruppi armati (difficile visto che sono nascosti tra i 
civili) e raggiungete i checkpoint dell’esercito (ancora più difficile 
vista l’assenza di corridoi umanitari).
Già 150 i raid sui 
quartieri est controllati dalle milizie, 90 le vittime. Tra i target 
anche centri della locale protezione civile. E ieri pomeriggio una fonte
 interna ha paventato la possibilità di una prossima offensiva via 
terra.
Dichiarazioni che non fanno pensare alla volontà di 
dialogare, stesso messaggio inviato dalle continue violazioni della 
tregua compiute la scorsa settimana dalle opposizioni. Dietro il 
paravento diplomatico (ieri il segretario di Stato Usa Kerry e il 
ministro degli Esteri russo Lavrov parlavano ancora, incredibilmente, di
 rivedersi oggi per cercare un accordo) stanno interessi difficili da 
scalfire, specchio delle diverse strategie impiegate sul disastrato 
campo di battaglia siriano.
Se è vero che tutti vogliono risolvere
 il conflitto, perché dopo 5 anni e mezzo e 450mila morti, si combatte 
ancora? Perché gli obiettivi dei signori della guerra non sono stati del
 tutto raggiunti. Assad, dato per spacciato ma rinvigorito 
dall’intervento russo, punta oggi a chiudere islamisti e moderati in 
enclavi circondate dal governo, territorialmente discontinue. Lo fa con 
l’esercito ma anche con gli accordi di Homs e Daraya, costringendo 
all’evacuazione i “ribelli” e spedendoli tutti a Idlib, in mano ad 
al-Qaeda.
Le opposizioni non accettano il ben che minimo 
compromesso, forti dei balbettii internazionali che non sanno 
distinguere tra forze effettivamente legittimate dalla popolazione per 
prendere parte al futuro della Siria e quelle il cui obiettivo non è la 
democrazia ma un califfato sunnita. Continuando a ricevere armi e 
protezione con cui si rafforzano, gli islamisti si stanno creando una 
base di consenso nelle zone assediate, fertili alla propaganda 
anti-governativa.
La Turchia non ha ancora ottenuto zona 
cuscinetto e scomparsa del progetto politico e geografico della kurda 
Rojava e accende la guerra con invasioni ostili al dialogo. Approccio 
che condivide con il Golfo, il grande finanziatore del conflitto, che – 
seppur non abbia fatto saltare Assad – ha ridotto la Siria in macerie, 
mera ombra del paese leader che era.
L’Iran, che con uomini e 
denaro tiene in piedi Damasco, vuole scansare il pericolo di una 
frammentazione del paese alleato in cui tanto ha investito e che gli 
garantisce, insieme ad Hezbollah, di opporre all’asse sunnita un asse 
sciita altrettanto potente.
Infine, la guerra fredda Usa-Russia. 
Washington, annichilita dal ritorno del Cremlino, vuole evitare che la 
Siria resti nella sfera russa e non disdegna una frammentazione che ne 
faccia un soggetto debole e controllabile. E si allea con chiunque, 
gruppi impresentabili ma nei fatti le sole opposizioni.
Mosca 
vuole tornare super potenza a livello globale, sia sul piano politico 
che economico: la Siria, in tal senso, non è che campo di battaglia di 
una contrapposizione politico-strategica molto più ampia, nella quale 
non è la diplomazia a definire gli equilibri di potere, ma gli eserciti e
 gli affari.
E le alleanze si mescolano, i cambi di casacca sono 
repentini. Ieri il voltafaccia dell’ex al-Nusra: dopo aver ricevuto per 
anni armi e denaro dalla Turchia, ha fatto appello alle opposizioni 
perché si contrappongano all’invasione turca a nord: «Vietiamo di 
combattere sotto qualsiasi potere regionale o coalizione internazionale –
 dice il comunicato chiaramente scritto nella veste di leader delle 
opposizioni sunnite – L’intervento Usa sostiene il Pkk a danno delle 
regioni sunnite». Al solito, il mostro che si ribella allo sponsor anche
 se ne condivide gli scopi.
 
