il manifesto 24.9.16
Il capitalismo delle piattaforme
Accordo Facebook e Israele per mettere sotto controllo la Rete, mentre le voci della vendita di Twitter scuotono Wall Street
di Benedetto Vecchi
Facebook,
Twitter, Amazon, Netflix e Google sono esempi di quel «capitalismo
delle piattaforme» considerato la frontiera della produzione della
ricchezza. Il loro business è dato dalle informazioni che ogni utente
lascia dietro di sé nelle sue navigazioni in Rete. Siti frequentati,
contatti attivati, contenuti scaricati. ogni elemento è buono per
costruire profili individuali e per accumularli in enormi archivi (i Big
Data). All’interno di uno scambio luciferino – uso gratuito di servizi e
applicazioni in cambio della cessione della proprietà sui propri dati
individuali – è una forma di produzione della ricchezza sfiorata dalla
crisi globale.
Finora la discussione è stata un affare per addetti
ai lavori o relegata in ambiti di produzione teorica radicali. Ma poi
irrompono nella scena mediatica alcune notizie e il nodo del
«capitalismo delle piattaforme» torna a turbare i mouse dei «connessi
h.24». La prima riguarda Facebook, la seconda Twitter.
Mark
Zuckeberg si è presentato davanti alle telecamere con il premier
israeliano Benjamin Netanyahu per parlare di un accordo stilato con
Israele quasi fosse un capo di stato. La società statunitense e il capo
del governo si sono messi d’accordo per monitorare le comunicazioni sul
social network, prevenire eventuali propositi di attacco a Israele e
«bannare» pagine ostili allo stato israeliano. La seconda notizia si
basa su indiscrezioni riguardanti il possibile acquisto di Twitter da
parte di Google e di SalesForces. L’effetto dei rumors è stato quasi
immediato: il titolo di Twitter ha avuto una impennata a Wall Street.
Sono
solo due esempi di come il «capitalismo delle piattaforme» sia qualcosa
di più che non una suggestione accademica. Le implicazioni sono molte.
Facebook diventa un guardiano dei contenuti veicolati dal social
network, con buona pace della privacy e della libertà di espressione. La
notizia su Twitter segnala che i cinguettii nella Rete possono smuovere
miliardi di dollari.
Una volta attestata la rilevanza di quanto
accade in Rete, rimane da chiarire il perché quella delle «piattaforme»
sia la nuova frontiera del capitalismo.
Tutto ha avuto origine da
un patto luciferino difficile da mettere in discussione. Si arriva in
rete e le società garantiscono framework, programmi informatici e
applicazioni gratuiti per comunicare, scrivere, fare di conto, leggere
libri e vedere filmati. A patto però tutte le informazioni sulla
navigazioni, gusto e contenuti possano essere usati da quelle stesse
società per fare affari, cioè vendere spazi pubblicitari e per attirare i
singoli in siti che propongono applicazioni che gratuite proprio non
sono. È una forma questa di «economia della condivisione» che ha portato
molti economisti a blaterare di società postcapitalista.
Ma quel
che viene omesso è che le informazioni sono cedute altrettanto
gratuitamente e che costituiscono le merci essenziali per «il
capitalismo delle piattaforme».
Qui siamo in un territorio dai
confini porosi e in continuo divenire. Ad esempio, dopo decenni di
difesa forsennata e liberticida della proprietà intellettuale, il
capitalismo delle piattaforme ha bisogno, invece, di un regime misto tra
programmi informatici open source e algoritmi tutelati rigidamente da
brevetti, come nel caso di Google.
Tramonta così la possibilità di
promuovere una produzione non proprietaria di programmi informatici
alternativa a quella dominante. Quel che invece è imposta è una
produzione open source subalterna a una stringente logica capitalistica.
All’angolo è messa anche l’idea che la libera circolazione della
conoscenza metta in discussione le strutture di potere esistente.
La
conoscenza deve cioè essere libera di circolare. Guai infatti a
limitare il suo incessante movimento, perché si bloccherebbe quella
«innovazione dal basso» verso la quale le imprese esprimono una vera e
propria bramosia. È la logica «estrattiva» delle imprese che manifesta
la sua natura parassitaria: le imprese si appropria ex post di quanto
prodotto durante la navigazione in Rete, riservandosi la gestione del
coordinamento e di elaborazione dei dati raccolti.
Il mistero del
capitalismo delle piattaforme sta in questa appropriazione «a
posteriori». Dopo anni di elogi della sharing economy, il lessico
registra la critica che è maturata verso di essa. E se attivisti e
militanti radicali hanno cominciato a parlare di «platform
cooperativism», alludendo alla possibilità di sviluppare attività
economiche con una base mutualistica e solidaristica, l’espressione
«capitalismo delle piattaforme» segnala che tale possibilità sarà
ostacolato con ogni mezzo. Con accordi come quello tra Facebook e lo
Stato di Israele. O con monopoli come quello che si verrebbe a creare se
Google acquistasse Twitter.