il manifesto 24.9.16
Corbyn, il partito liquido e il Pd
di Marco Almagisti e Paolo Graziano
Domani
sapremo se il leader del Labour party britannico Jeremy Corbyn riuscirà
ad ottenere la riconferma quale segretario in singolar tenzone con il
moderato Owen Smith. Nel breve volgere di un anno, è la seconda volta
che il partito laburista affronta le primarie. Cosa di per sé già molto
inusuale e, pertanto, interessante perché mostra come la classe politica
rappresentata dall’élite partitica (parlamentari e membri della vecchia
guardia blairiana) non si sia rassegnata ad aver perso il controllo del
partito nel settembre del 2016. E, nonostante l’entusiasmo in termini
numerici suscitati dalla nuova leadership (da maggio 2015 a gennaio 2016
gli iscritti sono passati da poco più di 200mila a 388mila, giungendo
ora a quota 500mila), la vecchia guardia blairiana, predominante in
parlamento, è riuscita a ottenere una seconda tornata di primarie per
cercare di ribaltare gli equilibri di forza interni al Labour.
È
una partita politica molto importante e delicata, per diversi motivi di
interesse più generale. In primo luogo, si tratta di una battaglia tra
due anime del partito laburista e due modi di intendere la sinistra.
Smith rappresenta l’anima New Labour, cioè una «sinistra» che ha deciso
di sostenere il mercato apportando alcune – limitate – correzioni
redistributive volte principalmente a rassicurare il proprio elettorato
tradizionale e a non ostacolare capitali e imprenditori. Corbyn
rappresenta l’anima più sociale (non a caso è appoggiato da numerosi
rappresentanti sindacali) del partito e già l’anno scorso ha sorpreso
molti vincendo le primarie post-elettorali. Dato per spacciato nel 2015,
Corbyn si è guadagnato attenzione e rispetto grazie ad una campagna
orientata a ricostruire relazioni con le porzioni della società rese più
insicure e vulnerabili dalla crisi e rivelatasi molto efficace
soprattutto perché molto partecipata da chi ha visto in lui una risposta
alla deriva centrista del partito. Non a caso, Peter Mandelson, già
influente consigliere di Tony Blair, ha sottolineato che «una coalizione
limitata a raccogliere il settore statale, gli attivisti sindacali, la
classe media metropolitana, i giovani idealisti e le minoranze etniche
urbane non [potrà rappresentare] mai una maggioranza elettorale»,
tralasciando che le fortune politiche di Barack Obama negli Usa scossi
dalla crisi economica si sono fondate proprio su una cosiffatta
coalizione sociale.
Inoltre, la partita in corso è importante
perché potrebbe dirci qualcosa circa la forza dei nuovi partiti
«liquidi» animati principalmente dagli eletti, quale quello costruito da
Blair e dalla sua cerchia in oltre dieci anni di governo del paese. La
leadership di Blair ha favorito la trasformazione del Labour in partito
di eletti che fanno politica in doppiopetto, in televisione e nei
salotti della finanza – con un accento in perfetto stile Oxbridge -,
anziché stare ad ascoltare i più deboli ed eventualmente scendere in
piazza a fianco di lavoratori e lavoratrici vittime delle politiche di
austerità. Il confronto tra i due candidati è anche importante perché
pone al centro della discussione il rapporto tra partito e movimenti:
molto tenue, se non addirittura inesistente nel caso di Smith; molto più
articolato e fertile nel caso di Corbyn che ha in più occasioni
prestato ascolto e attenzione alle proposte provenienti da altri settori
della società civile.
Nel caso in cui Corbyn dovesse spuntarla,
sarebbe una vittoria significativa di un modello di partito sociale che
avrebbe molto da dire anche ad altri partiti della tradizione socialista
europea o che ad essa fanno riferimento. Come ad esempio al Partito
democratico, che sta attraversando una crisi, forse non ancora del tutto
manifesta, simile a quella che ha toccato il partito laburista inglese.
Certo, forse il Corbyn d’Italia non si intravede ancora. Ma mai porre
un freno alla (terrena) provvidenza.