il manifesto 23.9.16
I confini svaniti della democrazia
La
corrosione dello stato-nazione è un processo che ha avuto orgine molti
anni fa, ma le migrazioni lo hanno reso manifesto. Anticipiamo una delle
relazioni al seminario annuale della Società italiana di Filosofia
politica in corso a Roma
di Stefano Petrucciani
INCONTRI I nodi della politica all’Università La Sapienza
Il
testo qui pubblicato è tratto da una relazione che l’autore svolgerà
nel convegno nazionale della Società Italiana di Filosofia politica in
corso a Roma presso il dipartimento di Filosofia dell’Università «La
Sapienza» (Via Carlo Fea 2, Aula VI). L’incontro, dal titolo
«Macropolitica: i nodi della politica globale». Due i focus scelti: le
migrazioni e la giustizia globale. Temi che fanno emergere la corrosione
dello stato-nazione in quanto elemento di governo su un territorio
delimitato da confini certi e sottoposto a controllo. Come scrive
Stefano Petrucciani le migrazioni hanno messo in evidenza un processo in
atto da tempo, cioè la cessione da parte degli Stati europei della
sovranità nazionale a organismi sovranazionali o internazionali. Da qui
la necessità di immaginare una cornice analitica e teorica che fronteggi
il venir meno della legittimità dello stato nazionale nel definire
norme che riguardino sia i migranti che gli «autoctoni».
I lavori
hanno visto ieri le relazioni di Rainer Bauböck («Democratic Inclusion. A
pluralistici theory of citizenship», di Enrico Biale («Un demos fluido
per una democrazia iper-migratoria»), di Gianfranco Pellegrino
(«Migranti e rifugiati: una distinzione instabile») di Salvatore Veca
(«L’idea di giustizia globale»), Marina Marcenò, Daminao Palano e Volker
Kaul. Oggi i lavori proseguono con gli interventi di Sebastiano
Maffettone («Giustizia Globale e rapporti interculturali»), Fabrizio
Sciacca («I valori sono traducibili in diritti?»), Emanuela Ceva («La
dimensione internazionale e della giustizia nella transizione
post-conflitto»), Elettra Stimilli («Fanatismi e guerra civile mondale: i
mutamenti della politica globale tra diritto, religione e economia») e
di Andrea Salvatore )«Violenza terrore politica: per una definizione del
concetto di terrorismo»).
Nella contemporanea età
globale diventa in gran parte inattuale il principio sul quale, come ci
ha insegnato Jean-Jacques Rousseau, la democrazia si fonda, e cioè
quello per cui i destinatari delle decisioni politiche devono esserne al
tempo stesso gli autori. Questo principio è sempre meno effettivo; in
primo luogo perché le scelte politiche dei singoli Stati sono
determinate sempre più dalle decisioni di organismi sovranazionali che
hanno una debole o nulla legittimazione democratica; e in secondo luogo
perché, con i movimenti migratori di massa, gli Stati europei sono ormai
abitati da milioni di non-cittadini, destinatari di leggi dello Stato
senza esserne in alcun modo gli autori. La democrazia a misura di
Stato-nazione incontra quindi i suoi limiti, e questo rende necessario
un generale ripensamento dei fondamenti della politica, ovvero
l’ingresso in una nuova dimensione, quella che possiamo chiamare la
«Macropolitica».
Le sfide inedite
Il patto costituzionale
moderno, quello nel quale ci riconosciamo noi cittadini dei diversi
Stati europei, è nato anche dall’apporto del grande pensiero politico
che, con la tradizione del contratto sociale, ne ha fissato le
coordinate essenziali. Gli Stati sono impegnati a garantire innanzitutto
la sicurezza dei cittadini (come ha mostrato Thomas Hobbes), a
difendere i loro diritti compresi quelli di iniziativa economica (come
ha insegnato John Locke), a garantire la partecipazione democratica (di
cui è stato maestro Rousseau) e ad assicurare (come ha richiesto in
tutta la sua storia il pensiero socialista) degne condizioni di
esistenza e di lavoro, accesso a servizi essenziali, alla cultura e
all’educazione. Ma mentre la realizzazione effettiva di una democrazia
costituzionale, liberale e sociale, è ancora abbastanza lontana (anzi,
ci sono regressioni importanti per quanto riguarda i diritti sociali),
gli Stati moderni si trovano ad affrontare sfide nuove, come quella dei
flussi migratori, rispetto alle quali si trovano fondamentalmente
impreparati.
Ma tutto questo non è solo problema di impreparazione
tecnica. A mio modo di vedere si tratta soprattutto di una
impreparazione filosofica, di pensiero. Mentre la grande teoria della
modernità ci ha aiutato ad elaborare i principi dei moderni patti
costituzionali, quello che manca oggi è proprio una riflessione che sia
capace di mettere a tema con chiarezza concettuale quali potrebbero
essere i principi a cui ispirare le coordinate del patto politico non
più tra i cittadini di una comunità, ma tra i popoli dell’età globale.
Su questo piano, il lavoro del pensiero è ancora rimasto molto indietro:
basti pensare per esempio a quanto la Teoria della giustizia di John
Rawls sia più ricca rispetto al suo abbozzo sul Diritto dei popoli, o
alla differenza tra lo Jürgen Habermas di Fatti e norme e quello della
riflessione sul diritto cosmopolitico.
Nel pensiero moderno, la
riflessione consacrata alla dimensione sovra-statale si è concentrata
soprattutto sul problema di come superare le guerre istituendo un ordine
pacifico. Ma oggi sono molte altre le questioni aperte e difficili. Mi
limito a ricordarne alcune: i principi di giustizia economica e
distributiva che dovrebbero valere nell’ambito dello Stato nazionale
sono suscettibili di una qualche estensione globale? Qui si apre il
ricco dibattito che oggi va sotto il titolo di global justice; quale
atteggiamento dobbiamo tenere rispetto ai popoli che si ribellano alle
tirannidi che li opprimono? In che senso le ingerenze da parte di altri
Paesi sono legittime? E come conciliare il sostegno alle minoranze
oppresse con l’esigenza di mantenere la stabilità geopolitica?; Abbiamo
diritto di opporre barriere alla libera circolazione delle persone in un
mondo che è sempre più unificato? Quali giustificazioni ci sono per il
fatto che l’essere nato in una parte del mondo piuttosto che in un’altra
condanni alcuni a vivere in modi assolutamente più disagiati e
precari?; e ancora: che diritto ha una comunità-nazione di includere
forzosamente coloro che non vorrebbero farne parte, che vorrebbero
costituirsi come demos autonomo corredato del suo Stato indipendente?
Cosa può dire in proposito la comunità dei popoli?
Un problema di territorio
È
evidente che questi temi richiedono un ragionamento che sia svolto
anche in termini di fattibilità e di realismo, di quelle che Habermas ha
chiamato le ragioni «pragmatiche». Ma i problemi pragmatici si pongono
una volta che abbiamo chiarito i principi secondo i quali sarebbe
auspicabile operare, e proprio su questo fronte, invece, mi sembra che
siamo alquanto disarmati.
Le questioni delle migrazioni, della
giustizia globale, della protezione delle tirannidi, richiedono di
essere affrontate interrogandosi innanzitutto su quali potrebbero essere
i principi di un patto globale tra i popoli. Ma per ragionare su questo
si deve partire dalla consapevolezza che si tratta di una questione in
parte diversa da quella che ha riguardato il patto politico tra i
cittadini. Ciò è vero per diverse ragioni.
In primo luogo, la
comunità politica nazionale si fonda sulla territorialità e sul confine.
L’atto di fondazione di una nuova città (che originariamente è un atto
sacro) è quello di tracciare un solco che non può essere arbitrariamente
superato pena la morte, come dice Romolo nel mito della fondazione di
Roma raccontato da Tito Livio (ce lo ricorda Sandro Mezzadra nel suo
recente Terra e confini, manifestolibri). La comunità politica moderna
presuppone la categoria del confine, che è centrale nello sviluppo degli
Stati nazionali e delle loro guerre.
In secondo luogo, la
comunità politica nazionale è stata pensata come qualcosa cui si
aderisce volontariamente; cui si suppone, almeno in linea di puro
principio, che i cittadini scelgano di appartenere. Nella comunità
globale, invece, siamo gettati senza potercene, per ovvi motivi, tirare
fuori.
La comunità dei popoli è una comunità alla quale siamo
consegnati anche se non lo vogliamo; da una nazione ce ne possiamo
andare (almeno se essa rispetta questo basico diritto dei suoi
cittadini). Dalla comunità dei terrestri no; e neanche dalla relazione
con essi perché, come diceva il vecchio Kant, la Terra è rotonda, e
dunque a forza di allontanarci finiremmo per ritrovare proprio coloro
con i quali non volevamo avere nulla a che fare. Ma il fatto che la
comunità globale sia una comunità non di scelta, ma di necessità, cambia
completamente il quadro dei diritti e doveri reciproci rispetto a
quello che vale nell’ambito di una comunità nazionale di affini, oppure
lo lascia immutato almeno per quanto riguarda alcuni principi
fondamentali?
Le divergenze
Su questo tema la filosofia
politica più aggiornata si interroga da qualche tempo, e con risultati
assolutamente divergenti. Ma forse una suggestione che si potrebbe
seguire, per cominciare a dipanare una problematica che è complicata dal
punto di vista teorico e che rischia sempre di apparire «utopica» dal
punto di vista pratico, è quella di tracciare un parallelismo (fluido e
non troppo stringente) tra lo sviluppo di una possibile teoria
cosmopolitica e quello del pensiero politico a livello di Stato-nazione.
Questo
parte mettendo al centro la paura della morte e il tema della sicurezza
(Hobbes); quindi tematizza la necessità di proteggere i diritti privati
e la proprietà (Locke); mette quindi a fuoco con Rousseau la decisività
dell’istanza democratica e infine, col socialismo, quella della
condizioni materiali di vita e di lavoro.
La costruzione di
principi cosmopolitici potrebbe seguire, forse, una via non troppo
diversa. Primo: non mettere a rischio della sopravvivenza della comunità
umana, costruendo le condizioni della pace e, altrettanto, quelle della
non distruzione dell’ambiente, che della sopravvivenza è condizione.
Quindi, capire come si possano difendere, senza cadere in imperialismi
ed etnocentrismi, alcuni basici diritti (di libertà ed economici) per
tutti i popoli e non solo per pochi privilegiati. E poi (e qui è la
ripresa della questione «socialista») mettere a tema la insopportabilità
dello sfruttamento selvaggio e delle enormi diseguaglianze economiche a
livello globale. Per il pensiero politico che verrà, insomma, ci
sarebbe veramente molto da fare. L’agenda è densa e piena di difficoltà,
ma sicuramente è anche una sfida intellettualmente affascinante.