il manifesto 23.9.16
Patologie democratiche al pettine del populismo
Europa.
Quel che sta succedendo oggi in Europa - le ansie e la collera di masse
impoverite e precarizzate - era facilmente prevedibile e fu da molti
previsto già venti, trent’anni fa, ai tempi in cui si misero nero su
bianco i Trattati neoliberisti e poi ci si affidò all’unione monetaria e
alle politiche di austerity
di Alberto Burgio
A New York, tre giorni dopo il frustrante summit di Bratislava,
Matteo Renzi ha ricevuto il Global Citizen Award dalle mani di John
Kerry che lo ha calorosamente elogiato (guidata da un leader europeo
dinamico e sempre più importante, l’Italia va nella giusta direzione) e
pubblicamente definito uno «high energy guy». Una soddisfazione, non c’è
che dire. È bello che ogni tanto qualcuno mostri di volerti bene e ti
dia pure una mano.
È stato in quella circostanza che, raggiante,
euforico, commosso, il presidente del Consiglio ha detto una cosa seria.
Delle cui implicazioni non sappiamo quanto sia consapevole. In Europa,
ha dichiarato, manca la volontà politica di trovare una soluzione
all’ondata migratoria nel Mediterraneo. Questo, perché «siamo quasi
tutti sotto scopa elettorale, in Germania, in Francia e anche noi
abbiamo il referendum».
Che i governi siano sotto scopa, cioè
dipendano in larga misura dagli orientamenti e persino dagli umori dei
loro elettorati, è fisiologico. Anche Renzi sa che è un corollario
fondamentale della democrazia. Se se ne è lamentato, è probabilmente
perché intende che questo principio va tuttavia assunto con
ragionevolezza, pena la trasformazione della democrazia nel suo
contrario e in un incubo. Nel dominio dei cattivi demagoghi, in quella
che i classici chiamavano oclocrazia.
È giusto che i governanti
dipendano dai governati e ne assecondino le aspirazioni. Ma la loro
dipendenza dev’essere riequilibrata dall’autorevolezza delle classi
dirigenti. Le istituzioni democratiche debbono sì rappresentare
(interpretare e tradurre in fatti) la volontà del popolo sovrano. Ma
l’opinione pubblica dev’essere anche orientata. Le classi dirigenti
debbono aiutarla a definire criteri di giudizio illuminati e a elaborare
valori e standard di comportamento adeguati a una società complessa. Un
tempo si sarebbe detto, in modo forse un po’ spiccio che debbono
educare il popolo alla tolleranza, alla solidarietà e all’equità.
In
effetti, da questo punto di vista la questione dei flussi migratori
mette allo scoperto un grave problema, per non dire un fallimento delle
democrazie europee. Naturalmente i politici badano a non perdere
consensi. E siccome da lungo tempo hanno smesso di farsi carico della
qualità etica della cittadinanza – non hanno voluto o sono stati
semplicemente incapaci di farlo – ora si trovano a inseguire le pulsioni
più retrive delle popolazioni. I politici – anche democratici,
socialisti e progressisti – sanno che qui e ora l’accoglienza irrita,
indispone e preoccupa la maggioranza dei loro elettori, quindi
propendono perlopiù per politiche improntate all’egoismo, quando non
alla reazione nazionalistica, comunitarista e razzista. Di qui un essere
«sotto scopa» che denota una patologia della democrazia. E anche un
grave pericolo, poiché a giovarsi di questa sconfitta sono soprattutto
le forze della destra populista e xenofoba.
Renzi ha posto quindi
un problema reale e gliene va dato atto. Dopodiché è lecito chiedersi se
l’ha fatto strumentalmente, perché è in difficoltà in Europa, oltre che
in Italia. Oppure perché è consapevole di ciò che questo problema
implica e suggerisce. Sarebbe un bel passo in avanti, ma non sembra
molto probabile.
Il fatto è che guardare seriamente in faccia il
fallimento pedagogico delle classi dirigenti democratiche in Europa
imporrebbe di ricercarne le radici politiche e culturali. Richiederebbe
in particolare di interrogarsi sulle conseguenze del primato
dell’economia sulla politica che la destra reaganiana ha imposto con la
rivoluzione neoliberale e le sinistre liberal e uliviste (clintoniane)
hanno a loro volta avallato e radicalizzato. Quando a dar forma al senso
comune, alla mentalità e all’ethos prevalenti non sono le istituzioni
democratiche, a cominciare dalla scuola pubblica e dai partiti di massa,
bensì – immediatamente, senza filtri né contrappesi efficaci – il
mercato, vale poi poco piangere sul latte versato e predicare con voce
rotta sulla necessità di concepire politiche generose e lungimiranti.
Non solo perché il mercato è l’arena dei particolarismi in conflitto, ma
anche perché le conseguenze della competizione mercantile – non certo
un pranzo di gala – sono di per sé, per i soccombenti, tremendamente
dolorose.
Non c’è bisogno di aver trascorso ore in meditazione
sulle pagine di Marx, di Keynes e di Polanyi per intendere che se la
politica non pone argini alla bulimia del capitale, è la stessa
democrazia a venirne travolta. Basta un rapido sguardo sul Novecento.
Quel che sta succedendo oggi in Europa – le ansie e la collera di masse
impoverite e precarizzate – era facilmente prevedibile e fu da molti
previsto già venti, trent’anni fa, ai tempi in cui si misero nero su
bianco i Trattati neoliberisti e poi ci si affidò all’unione monetaria e
alle politiche di austerity. Oggi si può cercare l’applauso in qualche
salotto internazionale e ci si può anche atteggiare a statista contro i
lillipuziani della politica europea. Ma non sono che futili
soddisfazioni e sortite poco consistenti se ci si limita a lagnarsi
delle conseguenze di quelle scelte, evitando accuratamente di denunciare
le cause.