giovedì 22 settembre 2016

il manifesto 22.9.16
Obama a Netanyahu: ora Stato di Palestina
Medio Oriente. Il presidente Usa, nell'ultimo vertice con il premier israeliano, ribadisce che la sicurezza di Israele passa per la nascita dello Stato palestinese indipendente. E chiede la fine della colonizzazione. Ma le parole non bastano ai palestinesi dei Territori occupati dove si è riaccesa l'Intifada
Michele Giorgio

«La sicurezza di Israele è fondamentale per la sicurezza dell’America». Anche nell’ultimo incontro del suo mandato con il premier israeliano Benyamin Netanyahu, Barack Obama ha voluto prima di tutto riaffermare come il legame tra Usa e Israele sia «indistruttibile». Allo stesso tempo, come due giorni fa, il presidente americano ha ribadito di essere «preoccupato» per gli insediamenti coloniali israeliani in continua espansione nei Territori palestinesi occupati. «Voglio vedere uno Stato di Israele stabile e sicuro con una patria per i palestinesi», ha aggiunto caricando, almeno in apparenza, di tensione e significativi politici l’ultimo faccia a faccia con Netanyahu. Sullo sfondo c’è la situazione nella Cisgiordania occupata dove prosegue la nuova fiammata dell’Intifada palestinese cominciata un anno fa. Ieri i militari israeliani hanno sparato a una 13enne palestinese che al posto di blocco di Elyahu non si era fermata all’intimazione di alt dei soldati. Nello zaino della ragazzina, rimasta ferita, non sono state trovate armi né esplosivi e secondo le autorità israeliane la 13enne, durante l’interrogatorio, avrebbe ammesso che voleva suicidarsi.
Più volte nell’ultimo anno Israele, dopo l’uccisione di giovani attentatori palestinesi, ha riferito che le indagini avevano accertato che tanti degli accollamenti di israeliani tentati e compiuti, nascevano, oltre che dalla «istigazione dei media e dell’Anp di Abu Mazen» e dal «fanatismo religioso», anche da problemi familiari o personali, specie delle donne. Una spiegazione che vuole ridimensionare le ragioni politiche degli attacchi, legate all’occupazione militare che dura da 50 anni, per evidenziare presunti motivi personali e una insoddisfazione esistenziale. Una tesi respinta in modo secco dai palestinesi che sottolineano la rabbia dei ragazzi che non riescono ad immaginare alcun futuro se non quello della continuazione della repressione. Negli ultimi cinque giorni, otto palestinesi e un cittadino giordano sono stati uccisi dalle forze di sicurezza a Gerusalemme ed Hebron mentre cercavano di attaccare polizia ed esercito di Israele. Altri tre sono stati feriti. Tra gli israeliani un solo ferito grave, una poliziotta colpita al collo da una pugnalata. Ieri è terminato lo sciopero della fame, contro la detenzione amministrativa (senza processo) di tre detenuti palestinesi, Mohammad e Mahmoud Balboul e Malik al Qadi, dopo l’annuncio da parte di Israele delle date della loro scarcerazione. Al Qadi sarà libero nei prossimi giorni, i fratelli Balboul l’8 dicembre.
Brucia ancora l’umiliazione subita da Obama al Congresso, messa in atto da Netanyahu nel marzo 2015 nel tentativo, comunque fallito, di bloccare l’accordo internazionale sul programma nucleare dell’Iran. Obama ha preso schiaffi in faccia a ripetizione dal governo israeliano ma ha sopportato (quasi) in silenzio per otto anni. La promessa che fece ai palestinesi, nel famoso discorso del 2009 al Cairo di una nuova politica estera in Medio Oriente, più bilanciata e non schiacciata sulle posizioni di Israele, è sfumata. E se il suo predecessore George W. Bush sarà ricordato per le sue guerre e il via libero dato a diverse operazioni militari israeliane, Obama passerà alla storia come il presidente che ha concesso a Israele il più generoso pacchetto di aiuti militari, 38 miliardi di dollari in dieci anni, mai concesso a un altro Paese da una Amministrazione americana. In Israele si dicono insoddisfatti, le opposizioni attaccano il governo che non avrebbe saputo ottenere di più da Obama. E i Repubblicani sono furiosi perché l’accordo tra Washington e Tel Aviv esclude stanziamenti di fondi extra del Congresso per Israele. Non solo, 88 senatori Repubblicani e Democratici chiedono a Obama di imporre il veto a ogni risoluzione dell’Onu “unilaterale” contro Israele.
In anticipo sul faccia a faccia con Netanyahu, Obama attraverso il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, ieri ha lasciato filtrare l’indiscrezione che durante il meeting avrebbe sollevato ancora una volta la questione degli insediamenti coloniali israeliani. Questo, scriveva ieri Haaretz, ha indotto il municipio di Gerusalemme ad annullare la seduta di una commissione incaricata di monitorare l’estensione di un progetto edile (68 alloggi) nella colonia ebraica di Gilo, costruita fra Gerusalemme e Betlemme. Sempre Haaretz due giorni fa riferiva che più che temere il faccia a faccia di ieri, Netanyahu guarda con preoccupazione all’ultimo discorso che Barack Obama pronuncerà prima di cedere il posto alla Casa Bianca al vincitore delle presidenziali, Hillary Clinton o Donald Trump. I gruppi filo israeliani negli Stati Uniti sarebbero impegnati ad impedire che il presidente uscente possa pronunciare un attacco diretto e senza peli sulla lingua al premier israeliano e alla sua politica.

Il 13 settembre il governo statunitense ha annunciato che fornirà a Israele 38 miliardi di dollari di aiuti militari in dieci anni, nonostante le tensioni per lo stallo del processo di pace con i palestinesi.
Internazionale 1171 22.9.16
Peres non è un uomo di pace
Da Ramallah Amira Hass

Shimon Peres, 93 anni, ha avuto un ictus. Se fosse una persona qualunque, ci limiteremmo a dire che tutti meritano di invecchiare in modo dignitoso. Ma Peres non è una persona qualunque, come dimostra la preoccupazione del mondo per le sue condizioni di salute. Immagino che sia così anche in Italia, dove probabilmente viene presentato come un uomo che ha lavorato per la pace.
E dato che Peres è una figura pubblica, non è inopportuno parlare del suo contributo al disastro in cui ci troviamo.
Negli anni settanta ha sostenuto il movimento dei coloni. Negli anni novanta, come ministro degli esteri, è stato arteice degli accordi di Oslo, che hanno consolidato la realtà delle enclave palestinesi. Gli insediamenti e le enclave sono due facce della stessa medaglia, a dimostrazione di quanto sia stata coerente la sua visione delle cose. Negli anni settanta si parlava di “compromesso funzionale”: Peres e Moshe Dayan immaginavano una Cisgiordania in cui la Giordania avesse autorità sulla popolazione araba e Israele sui coloni. Negli anni novanta Peres ha modiicato leggermente la sua posizione e ha proposto che solo la Striscia di Gaza diventasse “stato palestinese”, mentre gli abitanti della Cisgiordania avrebbero avuto una limitata autonomia.
Solo quando la realtà delle enclave è diventata un fatto compiuto, Peres si è detto sostenitore di uno stato palestinese in Cisgiordania. Ma se restano le colonie non ci sarà mai la pace. Avremo solo una variante dell’apartheid.