il manifesto 22.9.16
Il rischio implosione e il referendum americano
Tolleranza zero e presidenziali. Perché la sicurezza nazionale è soprattutto questione interna
di Guido Moltedo
A
che serve chiedersi a chi porti voti l’insurrezione dei neri a
Charlotte? Inutile, cinico e sbagliato, chiederselo, specie se il
sottinteso evidente è che Hillary dovrebbe adesso farsi più dura,
prendere le parti degli agenti e non lasciare all’avversario la carta
della «sicurezza».
Non fare, insomma, come ha fatto – e come ha
fatto Barack Obama – dopo gli ultimi attentati di New York, tenendo una
linea considerata soft e debole (l’unica ragionevole!).
Certo, siamo a poche settimane dalle presidenziali.
E
tutto ciò che è «disordine», tutto ciò che suscita «paura», tutto ciò
che può essere ed è utilizzato e strumentalizzato in quella chiave, per
giocare sporco, dovrebbe favorire la destra, anzi sembra fatto apposta
per spingere Trump verso il traguardo della vittoria, che siano gli
africani americani che feriscono i poliziotti o che siano gli ordigni
casarecci di uno squilibrato islamico che seminano il panico a NYC e
dintorni.
Però non saltiamo alle conclusioni, specie se sono
palesemente sbagliate. Tanto per restare al tema: se i bianchi
arrabbiati che votano Trump hanno ora altre buoni pretesti offerti dalla
cronaca per andare alle urne e premiare The Donald – e chissà quanti
altri che non lo dicono ma faranno lo stesso – è altrettanto chiaro che
l’elettorato nero risponderà positivamente, a maggior ragione, alla
battuta non tanto scherzosa del «loro» presidente: se non voteranno
Hillary, o meglio, se non andranno alle urne e non voteranno per la
candidata democratica, per Barack Obama sarà un «personal insult». E in
alcuni stati in bilico il voto nero farà la differenza.
I
commentatori, specie nostrani, farebbero bene invece a porre e porsi
qualche domanda più di fondo, prima di immaginare un Partito democratico
che, per battere Trump, dovrebbe inseguirlo sul suo terreno.
L’8 novembre è un referendum tra un’America che, sulla scia di Obama,
investe nella sua «diversity» e, al contrario, un’America del tutti
contro tutti
A questo punto, infatti, è evidente a tutti la posta
in palio l’8 novembre. È un referendum, che attende gli elettori, tra
un’America che valorizzi e tuteli le ragioni dello stare insieme e che,
sulla scia di Obama, investa nella sua «diversity» e, al contrario,
un’America del tutti contro tutti, con la componente bianca
presuntuosamente e inutilmente candidata a riprendersi la centralità e
l’egemonia che sta via via perdendo.
L’America oggi è più che
mai lo specchio del mondo. Nella sua demografia c’è il puzzle di tutte
le culture, le etnie, le religioni presenti nel pianeta.
Com’è
lontana l’America solo in bianco e nero, della maggioranza bianca e
della minoranza nera. La presidenza Obama, questo ha rappresentato, non
un nero del ghetto ma il figlio di un immigrato dal Kenya, che diventa
presidente di una nazione multicolore, multietnica, multireligiosa. E ha
sintonizzato la sua politica internazionale con questa incredibile,
rapida, profonda trasformazione demografica del suo paese, in
concomitanza con la globalizzione.
Sulla nuova demografia ha
cercato di ridare forza alla democrazia, in casa e fuori. Non c’è
riuscito? Avrebbe potuto fare di più? Avrebbe potuto fare di più specie
per i neri? Ha fatto moltissimo per i neri, invece, cercando di essere
non il presidente africano americano, ma il presidente nero di tutti gli
americani. Non è stato capito?
Si scriveranno libri su questa
presidenza «di rottura», ma intanto l’America potrebbe reagire eleggendo
un presidente che capovolge quella visione, quel percorso. Se l’America
non riesce a contenere in sé e a mettere in connessione tra loro le
parti che la compongono, e che sono in continuo cambiamento, rischia
l’implosione.
È qui il problema della «sicurezza nazionale». È
davvero al suo interno, non all’esterno, la «national security». Il
rischio è che sul terreno americano trovino spazio e sviluppo gli stessi
conflitti che attraversano il mondo. La scommessa del realista Obama è
che solo un’America inclusiva, aperta, davvero «multi» può essere la
superpotenza solida al suo interno, che ha i titoli per «dare la linea» e
fare qualcosa per contribuire alla pace nel mondo. Come può essere il
pacificatore del mondo un paese che ha cento Gaza in casa?
In
questi giorni, la National Rifle Association (Nra), la lobby della armi
da fuoco che ha cinque milioni di membri, manda in onda nelle zone
rurali bianche degli stati in bilico un video shoccante che ritrae una
donna nel sonno che s’accorge della presenza di un intruso in casa e si
precipita al telefono, ma ci vorranno undici minuti, dice una voce,
perché rispondano al suo allarme. Poi la scena classica delle auto della
polizia, ambulanze, le luci nella notte la casa della vittima dopo il
delitto. Meglio munirsi di pistola che lasciare a Hillary il potere di
far ammazzare chissà quante donne nella notte. Cinque milioni per questi
spot, dei quindici stanziati per ora dalla Nra per sostenere Trump di
qui a novembre.
Come si fa a non connettere quest’offensiva
propagandistica della Nra con quella in atto da parte di Trump nei
confronti delle minoranze, degli immigrati, dei neri? Non è più
questione, per i democratici e la loro candidata, di competere o meno
con Trump sul terreno della «paura» ma di contrastarlo duramente e
sistematicamente, perché non si farebbe altro che alimentare proprio
l’atmosfera che favorisce la sua ascesa. E portare alla sua vittoria.