il manifesto 20.9.16
Gli operai suicidi e la sentenza iniqua
Pomigliano.
La vita di chi lavora sembra aver perso valore. Il caso delle tute blu
licenziate dalla Fca e dell'egiziano investito a Piacenza
di Guido Viale
Parlare
della vicenda dei licenziamenti di rappresaglia nello stabilimento di
Nola-Pomigliano, di quella rappresentazione del suicidio
dell’amministratore delegato di Fiat-FCA addotta come motivo del
licenziamento degli operai che l’avevano messa in scena, è difficile
perché è una vicenda che coinvolge una grande mole di sofferenza. Mi è
difficile soprattutto circoscrivere alla sola categoria della satira
quello che in realtà è un urlo disperato che, di fronte a un atto
estremo come il suicidio di lavoratori colpiti dal dispotismo padronale,
fa appello alle coscienze. Non certo alla coscienza di Marchionne.
Quella è protetta da una corazza fatta di denaro, di potere e del suo
ruolo, che difficilmente la rende raggiungibile dal rimorso. Bensì alle
coscienze di coloro che per il lavoro che svolgono sono stati coinvolti
in questa vicenda: i capi della gerarchia di fabbrica, innanzitutto; poi
quei sindacalisti che trovano l’emarginazione a vita dal mondo del
lavoro di quegli operai il prezzo da pagare per non turbare gli accordi
firmati o che vorrebbero firmare; poi i giornalisti che in qualche modo
sono venuti a conoscenza della vicenda, ma che non hanno dedicato a un
moto di indignazione per quei suicidi niente di più dello spazio di
routine che è stato loro concesso dai rispettivi direttori.
Ma
oggi quell’urlo è rivolto soprattutto alla coscienza di quei magistrati
che hanno perseguito, giudicato e di fatto condannato al licenziamento
gli autori di quella recita, contraddicendo, prima ancora che la lettera
e lo spirito della legge, il più elementare senso della giustizia:
quello che dovrebbe accomunare tutti gli esseri umani. Sia quel senso
della giustizia che, almeno per ora, lo spirito e la lettera della legge
non impongono certo l’obbligo di parlar bene del padrone, o di non
farlo sfigurare quando mette in atto misure talmente gravi da portare al
suicidio, e non una sola volta, di un lavoratore .
È a loro, a
quei magistrati, alla loro coscienza, che va riferito ora il senso
profondo di quella rappresentazione, che è, o dovrebbe essere, il
rimorso. Come è possibile non provare rimorso per una sentenza che
antepone al rispetto della pari dignità e al diritto alla vita di tutti i
lavoratori l’ego tronfio di un padrone e di una gestione aziendale? Di
un sistema che include tra i materiali e i fattori del processo
produttivo anche la pretesa di essere esentati da una critica che porta
in piazza le gravissime conseguenze di quelle discriminazioni?
Si è
lasciato volutamente per strada quel briciolo di umanità che dovrebbe
impedire di invertire le parti tra una serie di suicidi veri, di
lavoratori ridotti alla disperazione, e un suicidio finto, e solo
rappresentato con un’effige di stracci e cartone. Di quei suicidi veri
si è scritto in sentenza che è impossibile ricondurli alla
discriminazione e alla conseguente miseria che li hanno generati. Mentre
quel suicidio finto e solo rappresentato è stato invece considerato un
irrimediabile intoppo alla produzione o alla possibilità di dargli un
adeguato sbocco sul mercato. Perdere quel briciolo di umanità con una
inversione delle parti come questa, e non senza un gravissimo
stravolgimento dello spirito e della lettera della legge, dà la misura
di quanto siamo ormai precipitati, o stiamo precipitando, in un clima di
barbarie.
Una barbarie che non è più confinata solo entro i muri
della fabbrica, un luogo in cui ai lavoratori non sono mai stati
garantiti giustizia e benessere, perché diritto e amministrazione della
giustizia se ne sono sempre tenuti lontani per non disturbare
l’«ordinario andamento» dei processi produttivi. Ma qui c’è qualcosa di
più: c’è una barbarie che si è mossa alla difesa del processo produttivo
anche all’esterno della fabbrica, circondandola con un «cordone
sanitario», per impedire che anche solo l’eco delle malefatte che si
perpetrano al suo interno possa raggiungere le orecchie dei non addetti
ai lavori. Con questa sentenza i giudici che l’hanno emessa ci stanno
dicendo che la discriminazione all’interno della fabbrica è una
componente «naturale» dell’ordine produttivo; che non va denunciata
neanche quando porta a conseguenze gravissime come il suicidio; che il
suicidio di chi è stato discriminato non è che una «opzione»
individuale; e che il richiamo alla coscienza dei responsabili di quelle
discriminazioni e di quei suicidi – e di chi dovrebbe farsi carico di
quell’urlo di disperazione – è un atto indebito. È un maldestro
tentativo di far ricorso a quel senso di umanità che dovrebbe albergare
in ciascuno di noi e che invece va spento una volta per sempre, perché
il processo produttivo e le prospettive di mercato non subiscano
intoppi.
La cattiveria umana, e non il caso, ha fatto sì che
proprio in questi giorni venisse messo in chiaro dove portano sentenze
secondo cui la vita di un operaio o di una operaia non vale niente,
mentre le esigenze della produzione sono tutto. Al grido di «Spianatelo
come con un ferro da stiro» un lavoratore che partecipava a un picchetto
è stato ucciso da un camion lanciato contro di lui su incitazione di un
manager. Aveva cinque figli ed era egiziano. Due ragioni in più per
sostenere che non era niente. Infatti sembra che la Procura di Piacenza
abbia declassato quel l’omicidio a «incidente stradale».