il manifesto 17.9.16
Morte della politica
Il sentiero stretto della sinistra europea
Con Stiglitz e Fassina, per restare nell’Unione, superando in modo condiviso e parziale la moneta unica
La democrazia chiede ancora la battaglia politica nazionale
di Giorgio Galli
È
vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non
sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in
occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un
salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i
corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica
francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).
Per
schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni
conservatrici (all’insegna del “non c’è alternativa” all’euro e alle sue
regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli
Stati uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari
strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si
deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che
tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una
contraddizione fra euro e democrazia sociale.
Ma mentre questa
opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o
poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di
distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non
può essere che una parentesi), che andranno incontro a una
polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.
L’altra
fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo –
in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di
soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo
Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i
singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o
del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e
forze antisistema.
Il punto è che le forze antisistema si
coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o
populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa
situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di
lettura e d’azione.
Dal dibattito in corso sul manifesto (vedi
sotto, ndr) sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina)
favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di
uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica
invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio
del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a
quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a
quello mondiale, iniziando col “disobbedire” alle regole economiche
della moneta unica, senza uscirne.
Al di là della sovrapposizione
fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare
l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che
la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere
economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta
da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la
questione del demos –.
Non c’è nulla di nazionalistico o di
sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si
costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del
pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da
conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di
potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più
vasta scala, è senz’altro lo Stato.
La politica su scala
continentale ha inizio là dove la politica si condensa
significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema
della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico,
politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha
mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro
compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza
nazionale –.
Se non passa attraverso la scala statale, la lotta
sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna
speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un
nuovo assetto delle relazioni internazionali.
Ci si deve servire
dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa
diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già
stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà
forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a
livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra
accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi?
Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in
modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche
significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una
politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento
parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.
Lo
spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può
anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere
una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.