il manifesto 14.9.16
Morte della politica, per evitarla partire da noi senza vie di fuga
di Alberto Burgio
C’è
un fatto curioso e significativo. Benché sia evidente e foriero di
nuove disfatte, il vuoto desolante nel quale ci troviamo stenta a essere
riconosciuto nella sua radicalità, per così dire epocale. Così il
discorso sulla «morte della politica», che potrebbe e dovrebbe offrire
le premesse per ripensare in tempo utile natura e funzioni delle
soggettività della sinistra – compreso questo piccolo glorioso giornale –
in un contesto totalmente mutato dagli anni della cosiddetta prima
Repubblica e del bipolarismo mondiale della Guerra fredda, questo
discorso è derubricato a faccenda di ordinaria amministrazione, quando
non frainteso nel ricorso a puntualizzazioni fini a se stesse.
Queste ultime – la politica non muore perché tutto è politica – lasciano il tempo che trovano, e il tempo è prezioso.
Noi
cerchiamo di correre contro di esso perché sentiamo che è in gioco
anche una questione in senso largo generazionale. Chi non ha vissuto gli
anni Sessanta e Settanta, chi è venuto all’età della ragione quando la
politica era già, nel mondo, lo scatenamento neoliberale degli spiriti
animali e, in Italia, la mercificazione berlusconica delle istituzioni –
in una parola la post-democrazia – ha motivo oggi di identificare
l’esistente con l’orizzonte del possibile o di scambiare tutt’al più le
proprie aspirazioni soggettive per istanze critiche.
Ma in questa
polverizzazione molecolare la sinistra evapora. E nella rassegnata
introiezione del dato come unico quadro di senso, la politica – la
politica come pratica storico-critica volta alla trasformazione – muore o
si riduce a simulacro.
Non dovrebbe essere dunque difficile
intendere che questa nostra discussione investe temi vitali. Che ne va,
ormai a breve, della sopravvivenza dei residui della sinistra politica,
al netto delle grottesche autoinvestiture renziane o bersaniane.
Negli
Stati Uniti, che restano di fatto un modello trainante della società
europea, la sinistra è da sempre «puro pensiero» critico per dir così
disincarnato, annidato nelle Università e nei think tank, affidato
paradossalmente al samisdat di ristrette élites intellettuali. È un
eccesso preconizzare che nel giro di pochi anni anche in Europa e nella
provincia italiana – finalmente normalizzata – sarà questo lo scenario, a
meno di mutamenti oggi imprevedibili? Se non lo è, abbiamo dinanzi un
destino ineluttabile o un terreno disponibile all’analisi e
all’intervento pratico?
Benché la stessa resistenza a
riconoscerla, prima ancora che a farsene carico, testimoni l’intensità
della crisi, un minimo di lungimiranza consiglierebbe, a mio avviso, di
assumere seriamente la questione, con tutto il suo portato quotidiano di
frustranti evidenze.
Il punto è: da dove cominciare finalmente
questo discorso, consapevoli della sua urgenza e della sua complessità?
La crisi della sinistra italiana ed europea è – su questo in molti
conveniamo – «organica». Cioè profonda, strutturale. E pervasiva:
trasversale agli spazi della cultura e della moralità dei soggetti
individuali e collettivi, oltre che incombente sul grado della loro
efficacia materiale.
Forse, allora, è proprio da qui che conviene
muovere: dalla qualità del «fattore soggettivo», che al dunque
rappresenta sempre un aspetto decisivo nello sviluppo delle crisi.
Vorrei
fare qualche nome, per entrare a questo punto in medias res. Proprio
Gramsci, la cui lezione spesso ritualmente evochiamo; ma anche altri
nostri maggiori a cavallo tra l’Otto e il Novecento (Lenin e Lukács, per
esempio; e Antonio Labriola) insistettero sull’importanza
dell’autonomia culturale e ideologica delle organizzazioni del movimento
operaio. Scorgendovi non un corollario ma l’aspetto determinante la
loro costituzione e capacità d’intervento.
Autonomia, per un
verso, dall’ideologia (e dalla moralità) dominante. Costruzione
autonoma, per altro verso, di strumenti concettuali e di criteri di
giudizio per la determinazione delle finalità della prassi politica.
Quel
che era indispensabile ieri lo è forse meno oggi? O oggi lo è semmai in
maggior misura, dato che molto è mutato nel frattempo nelle coordinate
di fondo della realtà economica, sociale e politica in cui si tratta di
operare? Passaggi di alcuni interventi nella nostra discussione sembrano
variamente convenirne.
Valentino Parlato muove dal silenzio
assordante della cultura critica; Alfonso Gianni lamenta l’incapacità di
leggere la crisi attuale; Stefano Fassina l’assenza di ragioni
fondative in una riflessione stagnante. Da ultimo, per contrasto,
Luciana Castellina rivendica la densità della presa di coscienza
collettiva degli effetti perversi della modernizzazione capitalistica
che, all’altezza del ’68-69 e nel decennio successivo, sorresse la
sinistra di classe in Italia.
Mi pare che una diagnosi comune circoli in queste considerazioni e che da questa dovremmo partire, senza indulgenza.
Siamo
oggi innegabilmente al cospetto di una pochezza disarmante di cui
andrebbero individuate le cause. Il respiro corto della politica
politicante non è innocuo né – suppongo – accidentale: risente di certo
di una fase storica regressiva segnata dall’accentrarsi della sovranità
presso oligarchie sottratte al controllo democratico e dal crollo delle
grandi ipotesi trasformative; ma tradisce anche le motivazioni di buona
parte di un ceto politico e sindacale balbettante e disorientato,
sganciato dal conflitto, non di rado disponibile alle seduzioni
dell’opportunismo.
Al tempo stesso il silenzio apolitico o il
conformismo di quella che fu la cultura democratica impegnata al fianco
delle lotte operaie e studentesche pongono un problema di prima
grandezza, a meno di non assumere deterministicamente l’inerzia complice
dell’intellettualità.
Insomma, forse è arrivato il momento di
fare tesoro di un’intuizione che segnò secoli addietro la nascita
dell’antropologia moderna: partire da noi senza vie di fuga ed esorcismi
di comodo è indispensabile per comprendere le ragioni della crisi della
sinistra e scongiurare la morte della grande politica.