il manifesto 14.9.16
L’umanitario che camuffa il militare
Libia.
Il rischio è che - a dosi omeopatiche - la presenza italiana cresca e
si arricchisca di ruolo. Già siamo presenti con corpi speciali in
operazioni «sotto copertura». Altroché missione umanitaria. D’altronde
fu chiamata così anche la guerra in Kosovo
di Giulio Marcon
«Anche
ad Amatrice siamo andati a fare una missione umanitaria». Con questo
ineffabile riferimento la ministra della difesa Pinotti ha giustificato
ieri – di fronte alle commissioni esteri e difesa – l’invio di 300
militari (100 parà, 135 per il supporto logistico e 65 medici, nonché
una portaerei armata di tutto punto nei paraggi: mancano solo gli F35)
in Libia, in un contesto dove ci sono tante micce accese: quelle del
terrorismo, del conflitto interno, della ribellione separatista del
generale Haftar, dello scontro geopolitico tra le potenze occidentali.
Il
paragone dell’invio di militari in Libia al soccorso alle vittime di un
terremoto arricchisce il catalogo delle discutibili uscite della
ministra.
Un anno e mezzo fa la Pinotti prefigurava 5mila paia di
scarponi italiani in Cirenaica e Tripolitania venendo poi fortunatamente
smentita dal premier Renzi.
«L’Italia – diceva la ministra sul
Messaggero – è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi
dell’area, europei e dell’Africa del Nord… Se in Afghanistan abbiamo
mandato fino a 5mila uomini, in un paese come la Libia che ci riguarda
molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più
preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e
impegnativa, anche numericamente».
Per il momento la ministra si
accontenta di 300 soldati. Un anno prima (eravamo al marzo del 2014)
della sua uscita sulla Libia, parlando degli F35 la Pinotti affermava
intervistata dall’attuale presidente della Rai: «Di fatto i
cacciabombardieri servono perché, a parte che se tu hai delle truppe,
dove c’è necessità di avere una difesa aerea, però potrebbe succedere
che qualcuno decide di sparare… oggi purtroppo le armi sono micidiali». A
parte il micidiale eloquio, uno scenario perfetto per la Libia.
Di
interventi militari camuffati da missioni umanitarie sono pieni i libri
di storia. Trecento militari sono ancora un numero limitato, è vero. Ma
anche in Vietnam gli americani mandarono all’inizio dei contingenti
ridottissimi e poi sappiamo come è andata a finire.
Il rischio è
che – a dosi omeopatiche – la presenza italiana cresca e si arricchisca
di ruolo e presenza sul territorio. Già siamo presenti con corpi
speciali delle forze armate che agiscono in operazioni «sotto copertura»
grazie ad una misura prevista da uno degli ultimi decreti sulle
missioni all’estero che tiene all’oscuro il parlamento su tutte le
operazioni militari che il governo ritenga di mantenere segrete.
La
situazione in Libia si presta benissimo a questa escalation: il paese è
diviso in due, il governo centrale è delegittimato, il terrorismo
ancora impera in molte aree del paese e lo scontro geopolitico tra i
paesi occidentali e della Nato per il controllo del petrolio arricchisce
in modo funesto il quadro. Altroché missione umanitaria.
D’altronde
fu chiamata così anche la guerra in Kosovo. Ora siamo davanti ad uno
scenario diverso, ma che segue la stessa logica. I trecento militari
possono diventare molti di più e l’ipocrisia della missione umanitaria
trasformarsi in una guerra.