il manifesto 14.9.16
Angelo Del Boca: «L’Italia è in guerra in Libia»
Intervista.
Lo storico italiano: «Il governo può chiamarlo sanitario-militare ma è
un intervento di soldati a terra. Ci infiliamo dentro la seconda guerra
civile libica, in un imbuto rischioso e senza fine»
di Tommaso Di Francesco
Abbiamo
rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica e sul ruolo
dell’Italia ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italianio,
esperto di Libia e di Africa e autore tra l’altro di una biografia di
Gheddafi.
Ieri alla camere, la ministra della difesa Pinotti e il
ministro degli esteri Gentiloni hanno presentato il piano del governo
sulla Libia, subito operativo. Il Parlamento è ridotto ad ascoltatore,
non decide nulla. E la portaerei Garibaldi con il suo carico è già
partita.
Interverremo in Libia con una missione
«sanitaria-militare» che si chiama Ippocrate, con «60 sanitari tra
medici e personale infermieristico» ma con «135 uomini a supporto
logistico e 100 parà» della Folgore, più i droni e i cacciabombadieri
della base di Trapani, più la portaerei Garibaldi. Che ne pensi?
Direi
che siamo in guerra e stavolta con i soldati sul terreno, non si tratta
più solo di raid dall’alto dei cieli. E un intervento sanitario
dovrebbe essere caratterizzato da una presenza militare più che
ridimensionata, assolutamente diversa e di supporto. Qui è proprio il
contrario: i militari appaiono predominanti. In genere si comincia così,
poi si aggiungono sempre altri soldati.
Che cosa è accaduto
perché si arrivasse a questa decisione, in qualche modo annunciata e che
diventa operativa nel momento, ci pare, peggiore visto che in Libia è
sempre più caos e guerra civile?
È accaduto che la battaglia di
Sirte non sta andando come si immaginava. Da più di un mese la città è
data, anche dai media, per caduta e nelle mani delle truppe fedeli a
Tripoli, e invece le milizie dello Stato islamico non cedono. Si è
sottovalutato la struttura quasi blindata della città, costruita così da
Gheddafi come la nuova Tripoli ma turrita e di cemento.
Tra
l’altro continuiamo a presentare le milizie di Misurata che combattono a
Sirte come l «esercito libico», quando sono solo alleate del governo di
Al Serraj, ora internazionalmente riconosciuto anche dall’Onu, un
governo che non controlla nemmeno tutta la Tripolitania e che si è
insediato solo per chiedere l’intervento internazionale e perché vuole
l’unità nazionale. Probabilmente è il peggior momento anche per Serraj.
Qual è la situazione sul terreno e quali schieramenti si contrappongono?
Dall’inizio
di agosto è cominciata una nuova fase della guerra. In appoggio a
Serraj sono intervenuti anche gli Stati uniti con massicci bombardamenti
aerei che, vista la struttura della città di Sirte, a quanto pare non
hanno sortito l’effetto definitivo, nonostante le tante perdite
dell’Isis. Misurata, dove arrivano centinaia di feriti, morti e vittime
dei combattimenti, è sempre più in prima linea, non è solo una retrovia
di intelligence, vettovaglie, addestramento, ospedali.
È iniziata
ora la fase concreta della spartizione della Libia. Perché intanto,
dall’altra parte, la Francia, che ha mire sulla Cirenaica e sul Fezzan
collegato alle crisi africane di Mali, Ciad e Niger, insieme all’Egitto
di Al Sisi, tanto esaltato da Matteo Renzi, stanno appoggiando anche
militarmente il generale Khalifa Haftar, il leader militare del governo
di Tobruk. Che non riconosce quello di Tripoli e che rivendica il fatto
che, un anno fa, era proprio l’esecutivo della capitale della Cirenaica
ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale che diffidava degli
islamisti al potere a Tripoli.
Proprio in questi giorni il
generale Haftar, mentre continua a bombardare Derna in mano alle milizie
di Al Qaeda, è all’attacco e sta conquistando città e porti petroliferi
libici decisivi per la continuazione della guerra e del controllo
futuro della Libia. Come di ogni possibile trattativa diplomatica sul
campo. Ecco perché inviare ora tanti soldati a copertura di una esigua
missione sanitaria vuol dire partecipare alla seconda guerra civile
libica, infilarci dentro un imbuto rischioso e senza fine.
Ma il
governo italiano sostiene che l’invio dei nostri soldati è un «obbligo
morale» perché non possiamo permettere che al di là delle sponde del
Mediterraneo si rafforzi lo Stato islamico
È un’affermazione
perfino giustificabile. Se non ci fosse di mezzo il piccolo particolare
davvero immorale: che l’Italia con i partner della Nato, in primis la
Francia e in seguito gli Stati uniti, sono responsabili del disastro
dello Stato libico. Qualcuno dovrà prima o poi ammettere ufficialmente
il fallimento dell’intervento militare internazionale della Nato nel
2011 che abbatté Gheddafi garante almeno dell’unità del Paese. E che,
pochi giorni prima di venire ucciso, ammoniva che se fosse stato
eliminato lui allora sarebbero arrivati i veri nemici integralisti
dell’Occidente.
Siamo in guerra. Stavolta non la chiamano
umanitaria ma sanitaria-militare, «Ippocrate», c’è una evoluzione. La
chiamassero come vogliono, di fatto stiamo partecipando della
spartizione della Libia e delle sue preziose fonti petrolifere.