il manifesto 14.9.16
Un passato contagioso per la sinistra
Una
conversazione a casa dello scrittore Ermanno Rea, l'anno scorso. «Il
meridionalismo amendoliano si è trasformato in un’infezione virale. Il
regionalismo feroce degli anni Settanta, l’emergere di politiche
secessioniste e razziste degli ultimi decenni: sono spettri di quel
passato che si rianimano»
Intervista di Graziella Durante e Giovanna Ferrara
(Questa
intervista è il frutto di una conversazione lunga in un tardo
pomeriggio di settembre dello scorso anno. Sedute a un tavolo con
Ermanno Rea le domande non riuscivano a chiudersi, diventavano altre
domande. Delle sue risposte sono apparse solo poche righe, tagliate per
esigenze di spazio, come vuole la legge della carta stampata. Ritornano
oggi con la loro dolcezza, e parlano della crisi della socialdemocrazia e
delle feroci storie del Pci napoletano, del sogno europeo e del suo
incagliamento, del ruolo degli intellettuali e della necessità di stare
in un esistente vivo, per costuire altre storie. Migliori)
Non si
può certo dire che Ermanno Rea – scrittore, giornalista e fotografo –
usi la memoria per sbarcare in paesi ed epoche non situate nel tempo e
nello spazio. Nella sua casa romana dove lo incontriamo, Napoli, la sua
città, è ovunque. Da quella del fatalismo quasi mistico di chi vive
all’ombra della ‘montagna vivente’, immortalata nelle vecchie stampe
delle eruzioni appese alle pareti, a quella della straordinaria
tradizione liberale partenopea incarnata da Spaventa e Croce, le cui
opere dominano incontrastate gli scaffali della sua libreria. Ma
soprattutto senti che è lì appena lo sguardo cade sulle scatole
meticolosamente archiviate che contengono fotografie, nastri, ritagli di
giornali, quaderni di appunti accumulati nel corso di quegli anni
difficili e tormentati del dopoguerra. Memorie, individuali e
collettive. Testimonianze. Cronache. Ricordi sfuggiti all’oblio.
Pensieri che si collocano all’incrocio tra finzione letteraria e verità
storica, inchiesta e invenzione, e ripercorsi nelle linee oblique che il
tempo traccia e, insieme, cancella. I romanzi di Ermanno Rea nascono in
fondo tutti da questi immensi serbatoi. Animati dall’urgenza,
scrupolosa e inossidabile, di non licenziare la complessità irriducibile
delle cose e dei fatti con schematiche semplificazioni. Ma anche dal
desiderio di riportare in superficie i misteri, magmatici e brucianti,
di un paese incline alle rimozioni. Eppure, ci dice sorridendo prima che
la nostra conversazione inizi, “a volte accade, quasi sempre, in
realtà, che il passato venga improvvisamente resuscitato, stanato. Che
il presente vi si intrufoli senza svuotarlo. Che si apra uno spazio
nuovo, dove il presente ritorna a produrre storia e futuro”.
Può
disorientare, l’incredibile manutenzione e cura che Rea dedica alla sua
macchina del tempo, senza mai isolarsi dal presente. E’ una sorta di
prezioso prisma luminoso da maneggiare con prudenza e talento, e che
incanta.
Il fallimento della socialdemocrazia, reso evidente a
partire dalla vicenda elettorale di Alexis Tsipras, è un dato amaro, che
rende questa apertura di credito al presente difficile. Lei riesce a
dare un credito a nuove storie, a un nuovo futuro per la sinistra?
La
parola ‘sinistra’ è stata logorata da chi aveva interessi a farlo.
Parte di quel logoramento è da attribuire alla sconfitta dell’Unione
Sovietica. La sinistra ha commesso un errore gigantesco: ha immaginato
di poter realizzare un mondo perfetto, ha creduto nella favola del bene
che sconfigge il male, dimenticando che cos’è l’uomo nella sua
complessità. Ha puntato tutto su una promessa, senza fare i conti col
fatto che il conflitto è permanente e che serve conquistare spazi sempre
nuovi di libertà e di progresso, consapevoli che ci sarà sempre un
avversario. E’ da questo piano di realtà che la sinistra italiana
dovrebbe chiedersi cosa fare per il proprio paese e come. Nel presente
storico d’Europa si è comunque tentato di aprire un spazio nuovo,
sarebbe una grave resposnabilità per la sinistra italiana ‘assentarsi’
proprio ora.
Lo hanno definito un ribelle pragmatico, un populista
dell’ultima ora, accostandolo ad altri leader europei, come Renzi. Chi è
stato Tsipras, secondo lei?
Per descrivere la figura di Federico
Caffè, economista ‘disubbidiente” e problematico, ho coniato all’epoca
un ossimoro: riformista rivoluzionario. E’ lo stesso che userei per
descrivere Tsipras. Essere riformista significa stare nel conflitto, non
sottrarsi alle sue dinamiche, senza, tuttavia, credere di poter
espugnare il territorio avversario o fondare la società perfetta. Quella
missione è persa, lo dice la storia. Ma occorre risollevarsi dalle
delusioni del passato. In questo Tsipras è un rivoluzionario. Perchè ha
saputo indicare alla sinistra una nuova missione di sinistra, quella di
vincere alcune battaglie decisive, concrete, tenendo vivo il conflitto,
in maniera pragmatica. E’ una posizione che condivido appieno.
Facciamo
un primo taglio diacronico nella nostra conversazione. In uno dei suoi
ultimi libri è tornato a raccontarci della Napoli del dopoguerra e, in
particolare, della rottura che si produsse nel 1954 tra il quadro
dirigente del PC e il Gruppo Gramsci diretto da Guido Piegari. Può
spiegarci perchè considera quell’evento ancora di grande attualità?
Le
ragioni sono tante. La prima fu il modo in cui fu governato quel
conflitto interno al Pc napoletano. Un conflitto che nasceva su
questioni centrali per la politica del paese. Napoli fu in quegli anni
roccaforte dell’ideologia di partito con Amendola, Napolitano, ma anche
uno dei più produttivi focolai di dissenso grazie alla vitalità
intellettuale di Piegari, Marotta, e molti alter ‘menti’ che si
trovavano a Napoli in quegli anni. Ebbene, questo dissenso, il conflitto
produttivo che poteva generare, fu eliminato con una ferocia inaudita
e, nel contempo, con una precisione chiururgica. La macchina del fango
che fu adoperata per delegittimare, calunniare, silenziare Piegari e il
suo gruppo, ebbe conseguenze enormi sulle vite di quelle giovani
intelligenze politiche. Vede, gli eventi del passato hanno sempre molte
cose da dirci. Non sono mai semplice archeologia. Il ‘caso Piegari’ ci
ricorda quanto il potere possa essere ottuso, violento, miope tanto da
manipolare la realtà, espellendo le sue energie più preziose.
Quell’evento è stato un grande disastro per la storia del nostro paese.
Ci spieghi meglio. Quale fu il nodo politico al centro di quell’esperienza?
Vede,
non si tratta solo di un nodo politico irrisolto, ma di una vera e
propria ferita aperta che condiziona il nostro presente in maniera
profonda. Mi riferisco a quell’unità nazionale difettosa, nata, come
scrive Gramsci, sulla base dell’egemonia del nord sul sud, delle città
sulle campagne. Negli anni cinquanta, il meridionalismo amendoliano
acuiva questa diseguaglianza originaria, la consolidava, giocandola a
proprio favore. Amendola puntava a fare del mezzogiorno un blocco di
potere autonomo, autoreferenziale. Un avamposto del provincialismo tra i
più detestabili, quello che punta a difendere interessi privati e
carriere personali. Piegari si oppose fermamente a questa linea. Il
meridionalismo doveva necessariamenrte passare per una radicale
integrazione politica, economica, culturale dell’Italia. Un’integrazione
marcata dall’egemonia della classe operaia alleata ai contadini e ai
sottoproletari del Sud. Quel programma politico, profondamente
gramsciano, fu spazzato via dai dirigenti del Pc napoletano, ma anche da
Togliatti che scelse la via amendoliana.
E poi cosa accadde?
Accadde
che la portata dirompente, eversiva del messaggio che il Gruppo Gramsci
rivolgeva alle forze politiche italiane e al Pc – la necessità e
l’urgenza di affontare la questione meridionale come question nazionale –
richiamandole alle loro responsabilità, fu dispersa. Andò sprecata. Il
meridionalismo amendoliano si è trasformato, nel tempo, in un’infezione
virale del paese. Il regionalismo feroce degli anni settanta, l’emergere
di politiche secessioniste e razziste degli ultimi decenni, sono
spettri, demoni di quell passato, che si rianimano, trovano nuove forme
per dilaniare l’Italia. Quel colossale abbaglio che il Pc difese e
celebrò, sembra non finire mai.
Come ha descritto nelle fortunate e
controverse pagine di Mistero napoletano, un contributo significativo a
questo disastro è venuto anche da Giorgio Napolitano. Eppure dai tanti
omaggi e ritratti che gli sono stati dedicati, questo tassello della sua
biografia politica non è stato affatto evocato. Lei cosa ne pensa?
Direi
che è una storia delicata e complessa. Un’analisi difficile nella quale
pochi hanno voglia di cimentarsi. La stessa lunga biografia politica di
Napolitano non è un percorso lineare. Ci sono fratture, discontinuità.
Cambiamenti anche molto significativi. All’inizio c’è un Napolitano di
stretta osservanza comunista, rigoroso. Un “pretoriano” di Giorgio
Amendola, assieme a Gerardo Chiaromonte. Poi viene la fase del
migliorismo che è andato via via definendosi. Mi chiedo come si possano
conciliare fasi e prospettive così divergenti. Credo che il suo
crescente moderatismo politico abbia creato un elemento di lacerazione
nella sua biografia, che si spezza letteralmente, diventando poco
comprensibile. Non sono semplici contraddizioni, ma diverse figure
inconciliabili ad affiorare. Quando poi ha abbandonato, in qualità di
Presidente, il ruolo di ‘arbitro neutrale’ dell’arena politica italiana
per ‘scendere in campo’ in maniera così evidente, allora ho smesso di
capirlo e di sostenerlo.
Potremmo dire che oggi la politica
italiana e la sinistra, in particolare, sia rimasta ancora ostaggio
degli errori del passato? Lei quale futuro immagina per l’Italia?
Mi
pare che le macerie prodotte da un’unità nazionale deficitaria sono
sotto gli occhi di tutti. Ancora di più se si considera la cosa nella
prospettiva di un europeismo che rispecchia, a sua volta, problemi
politici così rilevanti. Parlo di macerie sociali, culturali, le cui
responsabilità, ignorate e fraitese, sono però politiche. Il dibattito
italiano è totalmente sequestrato da propaganda e strumentalizzaizoni.
Renzi che fa appello al partito nazionale, Napolitano al senso di
responsabilità per richiamare all’ordine dissensi e insorgenze. La Lega,
da un programma secessionista si è spostata su posizioni nazionaliste
anti-europeiste. Inosmma, credo che per segnare una svolta vera e
spazzar via pregiudizi, realtà che si sono calcificate nel tempo,
occorra grande forza ideale e la volontà politica di sanare ferite
profonde.
Qualcuno dice che l’Italia sia un paese di passion
tristi. Risentimento e disagi non riescono a essere rovesciati in
insorgenze, rabbia sociale, ribellione a politiche che strangolano i
giovani e rubano loro qualunque progetto di vita future. Lei cosa pensa
del clima generale del Pese?
L’illusione seminata dal capitalismo
ha assediato vitalità e senso critico. Ne siamo tutti contagiati. Si è
creduto a lungo, e fermamente, di vivere nel tempo delle vacche grasse
per tutti, quello in cui basta solo staccare il frutto e mangiarlo. E’
un’illusione che si è letamente sostituita alla realtà: l’idea che la
vita sta nel bene che riesci a consumare. La crisi è stata un
disvelamento. Non solo non è così, ma al passato non si può più tornare.
Era tutto un inganno. La prima conseguenza è che nessuno parla più di
futuro. Il futuro è sistematicamente ignorato. E del passato si parla
solo nei termini di un ritorno che aggiusta le cose: una nuova narrativa
illusoria e ingannevole. Non resta che un’attualità di crisi e di
incertezza. Un’attualità vuota che paralizza. E’ora che la gente non si
lasci più ingannare: il passato non torna mai, mai allo stesso modo, e
il futuro non è perduto per sempre. Sono certo che anche in Italia si
salterà giù dalla zattera spinta solo dalla corrente, dal corso
inesorabile delle cose. Il futuro non è già scritto, occorre immaginarlo
e battersi per costruirlo.
E il futuro dell’Europa? Ci sono
inquietanti tendenze rosso-brune che l’attraversano, scetticismo,
chiusure sovraniste, populismi che sfruttano un disagio sociale sempre
più diffuso, ma anche insorgenze nuove come in Grecia e in Spagna.
Mi
pare sufficientemente chiaro che in Europa si sia determinata una sorta
di ‘analogia domestica’ rovesciata. L’Europa ha bisogno, come l’Italia,
di un vero processo di integrazione sociale, culturale, civile,
politica, altrimenti andrà a sbattere. Finchè si continuerà a giocare il
discorso nazionalista contro quello europeista niente di sostanziale
cambierà. La classe politica europea è chiamata a questa responsabilità.
Per questo penso che non bastino rottamazioni generazionali, servono
cambiamenti di vedute, come quelle che si stanno affermando, non a caso,
nelle zone del Sud Europa. La Grecia, ma anche Podemos, sono il vero
nuovo che avanza perchè danno voce ai desideri e ai bisogni della gente
che vuole un’Europa diversa da quella che le è stata imposta finora.
Quale responsabilità hanno gli intellettuali in questi processi bloccati e mistificatori sotto cui agonizza la socialdemocrazia?
Quella
di dire di no. Come mi è capitato di scrivere, gli intellettuali devono
praticare una forma di solitudine che non può essere intesa come una
fuga dalla realtà, ma come una implacabile forma di dissenso nei
confronti di quello che succede. L’intellettuale è condannato a dire no.
Deve imparare a dire no. Vale per loro la stessa prescrizione che è
bene rivolgere ai politici: rifiutare l’esistente, cambiarlo, stando nei
conflitti reali.
E quella forma di dialogo continuo tra realtà e
finzione che lei pratica con la sua scrittura? Il rapporto tra scrittura
e realtà non è sempre una mistificazione?
Chiunque prende la
penna in mano, inventa e, in un certo senso, ricostruisce il reale. Non
esiste la realtà se non attraverso la mediazione di un soggetto che la
legge. La questione è capire quanta onestà intellettuale ci sia in
questo processo. Mistificazione è deformazione dei fatti orientata
all’inganno, al raggiro. Sono stato a lungo un giornalista, educato,
come tutti, a stare addosso alla realtà. Eppure, il giornalismo è, a
volte, un terreno di sofisticate, ingegnose falsificazioni dei fatti.
Come scrittore, ho imparato a mischiare immaginazione e realtà. E’ un
esercizio che non ha mai fine. Un esercizio etico: sposare realtà e
immaginazione senza che l’una offenda l’altra. L’offesa, in questo caso,
consiste nell’uso interessato del reale. Sto scrivendo un nuovo
romanzo, ambientato nel Rione Sanità di Napoli. Vi compaiono personaggi
veri insieme a personaggi di pura fantasia. Mi muovo in modo molto
cauto, prudente: può sempre accadere il contrario, che la realtà offenda
l’immaginazione, confinandola in un deserto.