il manifesto 13.9.16
Come si è passati dal Pci a Grillo
Il
pasticciaccio romano. Emanuele Macaluso se la prende con Sabrina
Ferilli, Fassina e tutti quelli che hanno preferito Raggi al
ballottaggio. Ma occorrerebbe incalzare gli eredi che hanno condannato
al rogo la cultura politica dei comunisti
di Michele Prospero
Traendo
spunto dai pasticciacci romani Emanuele Macaluso dedica molte delle sue
pagine più recenti a rimarcare l’incompatibilità strutturale, di
cultura politica lui dice, tra chi si riconosce nella vicenda dei
comunisti italiani e il M5S. Se la prende per questo con Sabrina
Ferilli, con Fassina e migliaia di elettori che hanno preferito Raggi al
ballottaggio scandendo che i comunisti, eredi di una tradizione che
enfatizza il primato della politica e il ruolo democratico dei partiti,
non votano per Grillo che i soggetti collettivi vorrebbe estirparli alla
radice.
Che all’origine del M5S ci sia una ambiguità costitutiva,
che ne inibisce le capacità ricostruttive, è indubbio. La contestazione
della forma partito, e la celebrazione del non-partito come momento
d’azione sostitutivo rispetto ai canoni della degenerata classe
politica, approda a meccanismi neofeudali di fedeltà che si prestano a
cadute anche fragorose quando si giunge alla prova del governo. Il
partito è una regolarità storica del moderno, non è agevole garantire
controllo, coesione, condivisione, gestione efficace del potere senza la
costruzione di una organizzazione che conferisce un senso a una vicenda
collettiva di partecipazione, di decisione e di lotta.
Ciò detto,
a proposito di una negativa inclinazione a estirpare la rappresentanza e
la mediazione politica, non si può non constatare, con una
preoccupazione di sistema, l’incendio doloso che la stampa, la tv hanno
appiccato attorno al caos romano preso come occasione per inseguire un
progetto di azzeramento dell’opposizione, di quella che esiste, non di
quella che si vorrebbe. Sul Corriere Antonio Polito (esemplare del
trasformismo italiano, che inizia a scrivere sul foglio fondato da
Gramsci e poi, solo alcune settimane fa, accosta le bandiere rosse e le
croci uncinate!) allestisce un processo sulla democraticità del M5S e
sentenzia che per la sua venatura utopica si tratta di un corpo estraneo
alla democrazia. Bisogna però procedere con estrema cautela nel
distribuire le patenti di democrazia in un paese che ha espresso governi
che hanno scritto una legge elettorale annullata dalla Consulta per
palese incostituzionalità e hanno modificato 47 articoli della Carta
confidando sulla arbitraria volontà di potenza di un piccolo partito che
ha solo il 25% dei voti.
Quando la contesa per il voto si svolge
con mezzi pacifici, e senza il ricorso alle pallottole, il requisito
minimale della democrazia si intende rispettato. Altri ingredienti
sfumano, ma questa mancanza di cose sostanziali vale per tutti i
soggetti in campo, non solo per il M5S. Lo schema di Macaluso è che da
una parte ci sono i partiti, che andrebbero difesi nella loro funzione,
dall’altra un movimento di insubordinazione che minaccia la tenuta
dell’ordinamento. Questa fotografia però non risponde alla reale
condizione della politica. E’ vero che la vicenda romana svela un centro
di comando opaco che si impone nelle scelte rispetto alle formali
competenze di cariche istituzionali espresse dal voto popolare. Ma
perché il sindaco regolarmente eletto, Marino, chi l’ha sfiduciato
davanti al notaio?
Lo stipendio del capo di gabinetto del
Campidoglio ha consentito alla stampa di gettare la prima pietra dello
scandalo. Il motivo di riflessione, più ancora che i soldi ricevuti
dalle toghe in prestito alla politica (che ricevono ovunque il medesimo
stipendio), dovrebbe essere però questo: perché tutti i sindaci,
governatori, presidenti del consiglio sentono la necessità di avere come
uomo di fiducia una toga? Perché familiari di magistrati ottengono
consulenze nelle amministrazioni? Per assicurarsi una pax territoriale
al riparo di sguardi indiscreti?
Una politica a corto di
legittimità etica affida al magistrato il compito di attestazione
fiduciaria. Spesso è una mera operazione di facciata che risparmia la
grande fatica di riformare la politica sul serio. Ma c’è anche
dell’altro. L’uomo di potere avverte un bisogno di protezione dinanzi al
ginepraio normativo che con facilità estrema espone il decisore al
reato fantasma dell’abuso di ufficio. Oltre a come districarsi nella
complessità procedurale, qualcosa d’altro però induce il politico di
oggi a intrattenere un rapporto riservato con un magistrato: desiderio
di carpire informazioni, anticipazioni, soffiate?
Che le nomine,
le carriere siano rimaste del tutto coperte da misteri (tra primarie in
rete e comando di Casaleggio) anche nella esperienza dei 5 stelle è
evidente. Il ruolo dell’ufficio legale vicino alla destra silenziosa
nella promozione, selezione dei collaboratori del sindaco ha
dell’inquietante. Ma queste pratiche erano abituali nei cosiddetti
partiti normali. Cosa c’è di politico, di pubblico nel percorso di
carriera del ministro che fu reclutato sulla base della “inesperienza” e
quindi di frequentazioni private con i potenti di turno? Quali rapporti
amicali legano un uomo-chiave di mafia capitale, ripreso dagli
inquirenti mentre conteggia mazzette di cinquemila euro ciascuna, e
centri di comando del Pd romano e nazionale? E i suggerimenti del
costruttore capitolino, proprietario di un foglio assai influente, non
sono forse all’origine della rinuncia preventiva alla poltrona di
sindaco di un candidato destinato al successo annunciato e però
benevolmente indotto al buen retiro alla Pisana?
I centri di
interesse influenzano la politica, la dirigono, da quando non c’è più il
Pci non esiste alcuna autonomia della politica dagli affari, dai
signori del cemento e dagli imprenditori dell’immaginario. In un’Italia
senza partiti, con gruppi di potere che manovrano le decisioni,
orientano le carriere e determinano le politiche, pretendere di mettere
sotto processo solo il M5S per lesa democrazia pare esagerato. La stampa
che divulga mail compromettenti «del piccolo borghese Di Maio» lo fa
per una vocazione al giornalismo aggressivo che non fa sconti al potere o
perché è sensibile alla cura di interessi di proprietari che hanno mire
nei piani regolatori, nell’energia, nella scelta delle olimpiadi? Che
forse la carriera politica di Romano ed altri non è intrecciata
organicamente dalla rete privata di Montezemolo? E dietro la scalata
ostile al Pd iniziata a Firenze che ruolo hanno avuto la massoneria
toscana, i gruppi finanziari, i potentati stranieri, le truppe di
Verdini?
Macaluso riconosce che Renzi esprime un leaderismo
ridicolo e che sia del tutto inadatto alla funzione di governo. E però
nella catastrofe italiana rappresenta il male minore. Si tocca, nel
dover scegliere il nemico meno costoso, il volto tragico delle opzioni
politiche in tempi di crisi, quando tutto è incerto e franano i punti di
appoggio. Che Renzi sia solo il pericolo minore è però il nodo del
contendere. Con gli interessi economici che accarezza, con lo stile
retorico che diffonde dosi massicce di antipolitica, con lo strumentario
della menzogna permanente, con le pratiche delle mancette che escludono
la grande politica, con la continua manipolazione del reale, con
l’attacco al sindacato, con l’abolizione dell’articolo 18, con l’assalto
alla costituzione in nome della lotta alle “poltrone” è difficile
annoverarlo come il male minore che merita soccorso. Il male è già
insediato al potere in virtù di una marcia virtuale tramite gazebo che
ora cerca il plebiscito confermativo.
In questo quadro di caduta
della tradizione democratica, Grillo rappresenta quello che Gramsci
riteneva essere l’eterna vena dannunziana che nelle fasi critiche
attraversa la politica italiana. Non è di sicuro la soluzione alla
crisi, anzi, ma sprigiona domande, istanze traversali che vanno
governate. Non a caso Gramsci, per arginare il fascismo, tentò, con la
mediazione del vecchio legionario Giordano, persino un incontro estivo
con il poeta vate, che poi saltò. Che oggi si cerchi un argine alla
deriva costituzionale renziana dialogando anche con le riedizioni del
sovversivismo dal basso di ascendenze dannunziane non è un vizio
assurdo, è nelle corde del pensiero politico comunista addestrato, anche
dal viaggio inutile di Gramsci a Gardone nel 1921, ad annusare nella
situazione concreta il nemico principale. Più che prendersela con i
cedimenti di Ferilli, occorrerebbe incalzare quegli eredi invertebrati
che hanno condannato al rogo la cultura politica dei comunisti per poi
regalare agli elettori la bella scelta tra Salvini, Berlusconi, Grillo e
Renzi.