il manifesto 13.9.16
Jobs Act, la riforma funziona solo quando lo decide Renzi
Occupazione.
Istat: nel secondo trimestre 2016 (aprile-giugno) l’occupazione è
aumentata di 189 mila unità. Ma in una precedente rilevazione di luglio
era stata già registrata una diminuzione. Aumentano i contratti a
termine mentre, al netto delle trasformazioni contrattuali, cala il
numero dei nuovi lavoratori a tempo indeterminato. Ignorando gli altri
dati del ministero del Lavoro e, in precendenza dell’Inps, il governo si
mobilita per celebrare un successo. Sulla riforma del lavoro continua
il grande imbroglio dei numeri. L'opacità dei dati sull'occupazione è
un'emergenza democratica
di Roberto Ciccarelli
Dopo
avere taciuto sui dati negativi dell’occupazione comunicati a luglio
dal’Istat (-11 mila assunzioni rispetto a giugno) e qualche giorno fa
dal ministero del lavoro, il premier Matteo Renzi ieri ha scritto in un
tweet trionfante: «Dati ufficiali Istat di oggi. Nel II trimestre 2016
più 189mila posti di lavoro. Da inizio nostro governo: più 585mila. Il
#JobsAct funziona». E, dopo essere stato smentito dal proprio ministero
venerdì scorso, secondo il quale i licenziamenti nel secondo trimestre
2016 sono aumentati, anche il ministro del Lavoro Poletti ha ritrovato
la parola: «Il Jobs Act funziona, si conferma il trend di crescita
dell’occupazione».
Ciò che in realtà aumenta è, come sempre, il
lavoro a tempo determinato (+3,2 sul trimestre, +3 su anno), mentre
cresce meno il tempo indeterminato (+0,3 sul trimestre, +2,1 sull’anno).
Aumentano gli occupati tra i 15-24 anni e tra i 25-34 anni (+233 su
base annua), ma il problema è che i dati di luglio li hanno dati in
calo. Si conferma, inoltre, l’effetto della riforma Fornero che ha
obbligato i lavoratori anziani a restare al lavoro: questa situazione
riguarda gli over 50 fino a 64 anni (103mila sul primo trimestre e
310mila su anno). Continuano a calare i lavoratori tra i 34 e i 49 anni
(-111 mila sull’anno), ovvero quella che dovrebbe essere la fascia più
«produttiva» della popolazione. È la rappresentazione di un mercato del
lavoro dove, alla base, prevale il precariato e, in alto, il lavoro
subordinato precarizzato e impoverito. Molto entusiasmo ha suscitato il
dato sul calo della disoccupazione giovanile: 35,1%. Un dato che a
luglio è tuttavia tornato a crescere.
Soddisfazione anche per il
calo dei Neet nella fascia di età 15-29 anni (oggi sono poco più di 2
milioni). Ma buona parte di questo dato è dovuto al rumore di fondo
prodotto dalla mobilitazione creata dal ministero attraverso la
fallimentare «Garanzia giovani»: basta essere «presi in carico» dal
sistema e avere una proposta di tirocinio per essere registrati tra gli
«attivi» e quindi aumentare la statistica. Che poi questo tirocinio si
trasformi effettivamente in un’attività è un altro discorso. All’8
settembre i giovani partecipanti erano 756.036, a 383.584 è stata fatta
una proposta. Le aziende che hanno aderito al progetto sono 2.441 che
hanno accolto 3255 tirocinanti. Dati che attestano l’estrema volatilità
della situazione. La crescita dunque esiste, ed è una sola: cresce il
precariato, senza contare i voucher, non il tempo indeterminato, e
tantomeno i «contratti a tutele crescenti» – in calo da mesi a causa del
taglio degli sgravi alle imprese – sul quale il governo si è giocato la
credibilità.
Questo uso cinico dei numeri affonda le sue radici
sul caos delle fonti sull’occupazione: sebbene l’abbia promesso l’anno
scorso, proprio in questi giorni, il governo non ha proceduto
all’unificazione dei dati provenienti da Istat, Inps e Ministero del
lavoro. Non è un caso che su questa totale mancanza di trasparenza e
uniformità si fondi la sua propaganda. Va ricordato che quella
dell’Istat è una rilevazione degli stock, ovvero la quantità di
occupati, disoccupati e inattivi in un determinato momento. L’Inps, e il
ministero del lavoro, registra i flussi del mercato del lavoro in un
intervallo di tempo, ragiona sull’inizio e la cessazione dei contratti,
considera le posizioni lavorative dal punto di vista fiscale, escludendo
il lavoro domestico, degli operai agricoli, dalla P.A. La differenza è
tra contratti e persone. Una persona occupata può avere più di un
contratto, e relativa cessazione. I dati non si escludono, ma presi
separatamente sembrano dire cose opposte. L’aumento delle cessazioni
registrato dal ministero può convivere con l’aumento dell’occupazione:
la stessa persona può attivare e chiudere più contratti a termine. Un
movimento che conferma quella che il giuslavorista francese Alain Supiot
ha definito «mobilitazione totale» dei lavoratori: l’occupazione oggi è
sinonimo della mobilità tra un contratto e l’altro. Non conta avere un
«lavoro», ma risultare «occupabile» all’occhio governamentale delle
statistiche.
«Nessun dato Istat dimostra l’efficacia del Jobs Act.
Le rilevazioni sono già superate da quelle non positive di luglio, che
vedono gli occupati di nuovo in calo, ma anche stando ai dati diffusi
ieri l’apparente ripresa della domanda interna si è già esaurita. Serve
una terapia shock rivolta alle emergenze sociali: disoccupazione
giovanile e femminile» sostiene Riccardo Sanna della Cgil che segnala
l’aumento delle ore lavorate (+0,5% sul trimestre e del 2,1% sull’anno).
Gli occupati restano pochi rispetto all’inizio della crisi, lavorano
molto di più a salari decrescenti. «Il tema vero – sostiene Guglielmo
Loy della Uil – è la crescita bassa e insufficiente e con un Pil quasi
immobile è complicato aspettarsi una risalita significativa del tasso di
occupazione, vero termometro del mercato del lavoro».