il manifesto 11.9.16
Usa e Russia in Siria, realpolitik con l’ombra di Ankara
di Tommaso Di Francesco
Riuscirà
ad imporsi la promessa – perché di promessa di tregua si tratta non di
un cessate il fuoco vero e proprio – annunciato nella notte di ieri da
John Kerry e da Serghei Lavrov?
Dicono le cronache che alla fine,
dopo tredici ore ininterrotte di trattativa, della quale gli americani
negavano addirittura l’esistenza fino a poche ore prima, le due
delegazioni (ma c’è una versione che dice solo quella russa) abbiano
offerto ai giornalisti stanchi ed affamati, tante pizze fatte venire da
un vicino McDonald’s e molte bottiglie di vodka. Forse sbagliamo, ma ci
pare un’accoppiata russo-americana davvero indigesta.
Speriamo non lo sia l’accordo raggiunto che presenta alcune straordinarie novità insieme però ad evidenti le ambiguità.
Il
cessate il fuoco vero dovrebbe cominciare lunedì 12 settembre, se il
risultato della mediazione Usa-Russia sarà accettato dalle parti in
causa.
La novità è che il piano, dopo mesi di colloqui e quattro
vertici andati a vuoto, prevede la costituzione di un centro congiunto
di intelligence di Washington e Mosca. Ma, ecco la prima ambiguità, sarà
un «centro» che dovrà selezionare sul campo le operazioni militari
condotte dai cosiddetti «gruppi moderati» e quelle invece dei
terroristi. Come sarà possibile, visto che i gruppi «moderati» tengono
militarmente solo grazie al fatto che operano spesso congiuntamente alle
milizie qaediste?
Al Nusra ha cambiato nome ma è sempre
appoggiata dal fronte dei paesi sunniti che sono all’origine del
conflitto e Washington non l’ha mai messa nella «lista nera».
Comunque
sia, la Russia s’impegna a fermare le forze di Assad anche nella
contesa e decisiva Aleppo – e già Damasco si dichiara pronto al cessate
il fuoco – e le milizie collegate di hezbollah e Iran.
Gli Stati
uniti dovranno convincere gli «oppositori moderati» a rompere con i
terroristi estremisti islamici. Un fronte eterogeneo e micidiale fino a
poco tempo fa sostenuto sia dallo schieramento dei paesi sunniti a
cominciare dalle petromonarchie del Golfo, Arabia saudita in testa, sia
dagli «Amici della Siria» vale a dire gli stessi Stati uniti, tutti i
Paesi europei Gran Bretagna in testa e in primis, questo è il punto,
dalla Turchia.
Di Turchia non si parla nella promessa di accordo Usa-Russia. Meglio, si tace.
Erdogan,
tra le tante malefatte interne del suo Sultanato, nell’ultimo mese e
mezzo ha semplicemente aperto due fronti all’interno della Siria, di
fatto invadendola coi carri armati, sempre dichiarando di combattere
l’Isis, che ha sostenuto fino all’ultimo con addestramento, armi e
traffico di petrolio. Ma in realtà massacrando preferibilmente i
combattenti kurdi.
Nel silenzio generale, compreso quello russo:
in buona sostanza, i kurdi prima sostenuti sia da Putin che da Obama ora
sembrano scaricati da tutti, abbandonati sul sipario della realpolitik.
Perché impedire un loro rafforzamento strategico sul finire della
guerra non va bene certo per Ankara ma neanche per l’Iran, preoccupato
per la sua minoranza kurda, e probabilmente lo stesso discorso vale ora
per Damasco.
Così allegramente si accetta che la Turchia, grande
alleato della Nato, pratichi di fatto coi suoi tank la famosa «zona
cuscinetto» promessa anche dalla Germania a Erdogan prima del tentato e
fallito golpe militare ad Ankara.
Fatto sta che la Russia di Putin
torna ad essere decisiva per risolvere la frittata dell’intervento
occidentale nella guerra in Siria, nella convinzione che il regime di
Damasco sarebbe caduto com’era stato per Gheddafi in Libia.
Dentro
c’è la tragedia del popolo siriano, con quasi 300mila morti, città
distrutte peggio del terremoto dove si aggirano centinaia di migliaia di
sopravvissuti e che necessitano di corridoi umanitari, c’è la
disperazione di milioni e milioni di profughi che dilagano in Libano,
Turchia e Giordania, ma sono scacciati in gran parte dalla «civile»
Unione europea. Che non ne può più ed erige nuovi, vergognosi muri,
perché i disastri della guerra che ha contribuito a provocare gli
tornano in casa con effetti politici devastanti.
Così, fino a tre
giorni, c’era il pericolo di tornare, come se niente fosse, a tre anni
fa quando Obama, che scaldava i motori dei cacciabombardieri dopo la
rivelazione di un falso attacco ai gas nervini, fu fermato a fine 2013
da papa Francesco che chiamò il mondo in piazza alla preghiera contro
questa nuova inutile, «maledetta» guerra.
Con il nuovo accordo
torniamo solo a un anno fa, quando il presidente Usa aveva accettato
l’intervento militare di Mosca aprendo a Putin perché, come ormai
ammetteva la stessa intelligence americana, l’appoggio americano agli
insorti «moderati» (che sono stati sconfitti ma dettano poco credibili
condizioni di resa ad Assad perché, nella transizione, resti per altri
sei mesi e poi esca di scena) o era fallito o aveva sostenuto le milizie
di Al Qaeda e lo stesso Stato islamico.
Ora le due superpotenze
combatteranno in Siria insieme contro l’Isis. Dentro un oscuro orizzonte
a stelle e strisce. Sullo sfondo di un anniversario dell’11 settembre e
alla luce delle presidenziali statunitensi alle porte. Barack Obama
senza mezzi termini manda a dire al «filo-russo» Trump che con Putin
tratta e parla lui solo da posizioni di governo, cioè «di forza».
Ma
c’è il rischio che il patto siglato da Kerry e Lavrov, con la nuova
convergenza unitaria – stessa intelligence e forze congiunte di
bombardamento aereo nella guerra in Siria – venga perfino rivendicato da
The Donald, l’impresentabile magnate e candidato razzista repubblicano
che solo pochi giorni fa, in un comizio con 80 ex generali, invitava
proprio la Casa bianca ad unirsi alla Russia «contro l’Isis, nemico
comune».