il manifesto 10.9.16
Paura dell’esilio
Verità nascoste. La causa specifica del rigetto dei profughi è il vissuto di sradicamento di cui sono portatori
È un vissuto contagioso perché entra in rapporto con la dimensione psichica di “esilio” presente in ognuno di noi
di Sarantis Thanopulos
La
cancelliera Merkel è stata sconfitta nel suo collegio elettorale dalla
destra xenofoba. Le masse dei profughi ospitati dalla Germania hanno
minato il suo consenso apparso, fino ad oggi, inossidabile. Il primo
posto (in arretramento) ottenuto dalla Spd, con Linke e i verdi in netto
calo, è magra consolazione. I partiti sconfitti si interrogheranno
sulla convenienza di un ripiegamento su posizioni più prudenti. Nel fare
questo perderanno l’ennesima occasione di preferire la strategia alla
tattica.
La paura dello straniero non è necessariamente rivolta a
colui che è di un’etnia diversa, di un’altra lingua. I greci della
Turchia, in esodo di massa un secolo fa, hanno trovato nella “madre
patria” un’accoglienza ostile. Utilizzati perlopiù nei mestieri più
umili, sono stati a lungo confinati in baraccopoli nella periferia delle
grandi città. Gli istriani hanno avuto un destino migliore, ma non
proprio benevolo e i tedeschi dell’Est stentano ancora a integrarsi
nella patria riunita.
Nell’opposizione ai profughi, si possono
individuare due cause aspecifiche e una specifica. Le cause aspecifiche
sono il sentimento di essere invasi, quando i senza terra arrivano in
modo massiccio e rapido, e quello di essere derubati, quando non è
possibile stabilire con loro relazioni vere di scambio. Il secondo
sentimento è una costruzione puramente psichica: serve per allontanarsi
da una posizione desiderante, quando questa comporta un investimento
unilaterale, un atto di donazione a “perdere”. Più che la paura di un
impoverimento reale pesa la ferita narcisistica. La rinuncia contingente
è avvertita come diminuzione di sé permanente (in società opulente che
fanno del loro benessere il centro dell’amor proprio o nei strati
sociali più deboli).
La causa specifica del rigetto dei profughi è
il vissuto di sradicamento di cui sono portatori. È un vissuto
contagioso perché entra in rapporto con la dimensione psichica di
“esilio” presente in ognuno di noi. Ci costituiamo come soggetti sociali
attraverso una sequenza di esili da un’età all’altra, da un contesto
affettivo-relazionale a quello successivo (a partire dall’esperienza
fondamentale della separazione dalla nostra madre). E ogni nostra
relazione con l’altro richiede la possibilità di un reciproco esilio:
dell’uno nel modo di essere dell’altro. L’esperienza dell’esiliarsi,
condizione necessaria del sogno, del lutto e della relazione erotica,
viaggia pure a ritroso nel tempo, nel nostro passato e in quello delle
generazioni che ci precedono.
Il sentirsi sradicati priva la
dimensione psichica dell’esilio della sua natura isterica, antinomica:
essere cittadini della propria terra e, al tempo stesso, abitare come
apolidi l’altrove che appare all’orizzonte.
Al cospetto del
rifugiato si attiva lo spettro dello spaesamento, sempre presente nel
desiderio di esiliarsi, la preoccupazione di perdersi nel proprio sogno
senza più ritrovarsi nella realtà. Il rischio è di espellere il migrante
che sogna in noi.
Chi governa dovrebbe avere il coraggio di dire
ai cittadini che fare spazio, donare in modo unilaterale, non è
impoverimento né misericordia/sacrificio. È un investimento per il
futuro loro e dei propri figli, crea le condizioni per essere
ricambiati, quando lo scambio di doni sarà diventato possibile.
L’unico
modo per rendere vivibile un mondo sempre più in movimento e
irrequieto, proteggerlo da smottamenti catastrofici. Tuttavia, se non si
affronta il nodo di una società sempre più arbitraria e ineguale, chi è
disposto a scommettere un solo soldo sull’avvenire del dono
unilaterale, sulla bontà dell’incontro fondato sull’esilio?