il manifesto 10.9.16
Il ciclope Polifemo e Yuri Gagarin
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari
Polifemo,
figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto
cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe
ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo
splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due
storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il
rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella
visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era
concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun
altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana –
l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano
divino è Atena – poteva concepire ed eseguire un atto così significativo
del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate
dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca
Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello
dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della
fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è
dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie
ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità
dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M.
Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis
era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente
alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci
narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua
sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini
mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire,
allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la
pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi
ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la
lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis
di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare
infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il
suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze
femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si
suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni
dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine
di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i
Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più
lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza
della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro,
l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che
descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo
che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che
imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo
descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica
dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e
proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi
degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è
poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena –
nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al
suo potere – bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il
comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova
prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente. A questo fine è
necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate
agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della
ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il
mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque
legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua
politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi
Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che
l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non
comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la
scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un
conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere
delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo
perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli
antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da
uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma
da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le
antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso
delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi,
come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che
sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine
nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e
distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a
fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà
compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli
umani vogliono andare al di là dei loro limiti – il terribile peccato
della hybris – dato che è il regno olimpico quello che veramente conta
per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive
benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed
un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici
dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed
attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è
terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima.
Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano
tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e
della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte
partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le
contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non
appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte,
essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che
vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata
sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora
rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il
coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed
è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana
condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà
affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La
nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime
forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso – l’archetipo della vita
indistruttibile – alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E
dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla
prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del
mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una
prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci
dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo
che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene. Sarebbero
stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle
tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una
superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci
dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la
volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per
mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è
da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva
rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non
certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere,
deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che,
invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle
cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea
fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij
contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura
medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente
mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento – cioè dove
le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine – rende pienamente,
secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino,
costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via
per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le
Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa
prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè
di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a
falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la
sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o,
meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo
rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la
complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una
vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe
possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro
della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo
acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo
dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di
Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle
Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni
verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose
sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto
dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure
Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque
sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che,
invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche
a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in
fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse
va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover
salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato
preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E
così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del
passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la
continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la
centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente
borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento
simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella
sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta
il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva,
la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è
la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma
soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di
una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di
quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di
conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte
che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma
conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il
Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma
nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa
sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò
che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una
esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio,
finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta
della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale,
dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano
potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di
vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci
dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava
da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a
quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile.
Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai
nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello
del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata
negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella
spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti
gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato. Ulisse
aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e
ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla
Luna per recuperare il senno di Orlano, e da lassù guarda la Terra;
prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che
Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si
parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la
competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale,
psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo
significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55
anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più
incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della
Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che
nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis
dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta
sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito,
quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del
Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni.
Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una
prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un
unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato
dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile
centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas
sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono
Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta.
Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni
mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque
altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai
vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche
qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo
al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta,
non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha
brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità
cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.