sabato 10 settembre 2016

il manifesto 10.9.16
L’insostenibile leggerezza dei sondaggi americani
Presidenziali Usa. Tutto può accadere: una vittoria di Trump così come una vittoria a valanga di Hillary Clinton. Che trascinerebbe con sé un probabile successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo del Congresso
di Guido Moltedo

Qual è il grado di incertezza? «Molto più alto di quanto non si creda», risponde a se stesso Nate Silver, il mago degli algoritmi, sul suo seguitissimo e autorevole blog fivethirtyeight.com. A poco meno di due mesi dall’Election Day, la corsa presidenziale americana è aperta e tiene tutti col fiato sospeso. Soprattutto nel campo clintoniano.
Gli ultimi sondaggi non sono omogenei, sia quelli nazionali sia quelli eseguiti negli Stati in bilico, ma convergono su un dato che va preso sul serio: dopo la convention democratica, che aveva prodotto un tonificante rimbalzo per Hillary, dopo la sequenza di gaffe e passi falsi compiuti da Donald Trump che sembravano averlo messo fuori gioco, dopo un mese d’agosto privo di fatti di rilievo, e quindi un mese perduto per Hillary nella conquista di ulteriori punti di distacco, ecco, dopo tutto questo, che la distanza tra la candidata democratica e il candidato repubblicano si è assottigliata fino a configurare un sostanziale pareggio. Tanto che il magnate newyorkese può ragionevolmente ritenere di avere qualche buona chance di vincerle lui, le presidenziali.Si può dire in un altro modo, ma il senso è lo stesso: Nate Silver osserva che, accanto alle preferenze, c’è una quota di indecisi e di elettori inclini a votare per un terzo candidato, che è intorno al venti per cento, una cifra considerevole (alle scorse elezioni, di questi tempi, era del 5-10 per cento), cioè è così elevata da rendere poco credibili tutti i sondaggi che girano e quindi è tale da creare un paesaggio previsionale di fitta nebbia.
E allora? Tutto può accadere: una vittoria di Trump così come una vittoria a valanga (una landslide) di Hillary Clinton. Che trascinerebbe con sé un probabile successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo del Congresso.
Dunque, l’ultimo tratto di corsa, la sessantina di giorni di qui all’8 novembre, è quello che deciderà le presidenziali, non essendoci un candidato limpidamente favorito o nettamente in testa, come poteva sembrare solo un paio di settimane fa, quando si dava per scontata la vittoria di Hillary.
Che succede adesso? Ci sono i dibattiti in vista. Il 26 settembre e poi il 4 (vi partecipano i due candidati alla vicepresidenza), il 9 e il 19 ottobre. Duelli nei quali può accadere di tutto, considerando con chi dovrà vedersela Hillary, un avversario non solo privo di scrupoli ma del tutto imprevedibile. Come se non bastasse, il recente confronto a distanza condotto da Matt Lauer della Nbc tra i due candidati, sulla politica di difesa e di sicurezza, ha messo in chiaro un punto inquietante per gli strateghi clintoniani. I giornalisti-moderatori che attendono al varco i duellanti potrebbero rivelarsi – se sono come Lauer fino a ieri considerato equilibrato – tanto esigenti e abrasivi con Hillary quanto incredibilmente indulgenti con il suo avversario. Prospettiva fatale per Clinton, che finora, nel complesso, ha potuto contare su un sistema mediatico più simpatizzante con lei che con The Donald. Particolarmente insidioso l’ultimo dei quattro dibattiti, a Las Vegas, moderato da Chris Wallace di Fox News, la rete di Murdoch costituzionalmente, visceralmente anti-clintoniana, anche se non proprio amica di Trump, ma sicuramente interessata alla riconquista repubblicana della Casa Bianca.La lotta, come sempre, si concentrerà negli Stati in bilico e più in particolare nelle contee più in bilico di questi Stati.
Sarà uno scontro durissimo, all’ultimo voto. Nel quale conteranno molto anche i soldi. I fondi per acquistare air time, cioè spazi nelle tv locali. Da questo punto di vista, Hillary è notevolmente più dotata di Trump, potendo disporre di 127 milioni di dollari contro i 18 dell’avversario, già investiti per l’acquisto di spot televisivi fino all’8 novembre in sette cosiddetti battlegrounds, gli Stati «campi di battaglia» decisivi.
Importante, anche, l’impegno dei big dei rispettivi partiti al fianco dei contendenti. Resta evidente il divario tra Hillary – che può contare su pesi massimi come Obama, Sanders, Biden, Bill, Liz Warren e un vice come Tim Kaine – e Trump che continua ad avere un establishment repubblicano apertamente ostile.
Ma forse ancora più determinante potrebbe essere il voto di settori demografici considerati cruciali. Per citarne solo uno, quello cattolico, dove lo scarto tra Hillary e The Donald resta molto ampio a favore della prima e, per quanto si debbano prendere con le pinze questi numeri, la distanza è talmente grande (55/32 secondo il Public Religion Research Institute, 61/32 secondo Washington Post-Abc News) da non lasciar alcun dubbio sul fatto che la «scomunica» di Francesco dello scorso febbraio («una persona che pensa solo a fare muri, e non ponti, non è cristiana») non è rimasta inascoltata in una componente consistente di quell’elettorato bianco che è il principale serbatoio del trumpismo.
Questa però è «logica» politica, proprio quel modo consequenziale di leggere una dinamica elettorale in corso ormai da un anno con le lenti convenzionali, con la stessa ottica, cioè, con cui si leggevano le precedenti competizioni presidenziali statunitensi. Trump ha ampiamente dimostrato finora che connettere tra loro dati e fatti come si è sempre fatto è risultato fuorviante, anzi ha finito per alimentare la sua fortuna, rafforzando enormemente il suo status di outsider in rotta di collisione con quell’establishment che ha nella capitale federale, Washington, il suo detestato emblema e in Hillary Clinton la sua icona, l’outsider che contesta radicalmente – così lui si racconta, e pare che in molti gli credano – lo status quo che l’establishment, nella sue varie articolazioni, è interessato a conservare e preservare, anche per autoperpetuarsi.