il manifesto 10.9.16
Jobs Act, riforma a licenziamenti crescenti
Renzismi.
La riforma del mercato del lavoro è uno zombie utile da presentare solo
ai vertici europei, per ottenere le lodi della Merkel in cambio di
qualche briciolo di «flessibilità» in più per i bonus elettorali di
Renzi
La verità è un’altra. Secondo ai dati del ministero del
lavoro, eliminato l’articolo 18 le aziende licenziano (+7,4%); tagliati
gli sgravi contributivi, i contratti a tempo indeterminati continuano a
calare (-29%). Tutto secondo la norma. Peccato che il governo abbia
raccontato altro negli ultimi due anni
di Roberto Ciccarelli
Crollano
i contratti a tempo indeterminato e aumentano i licenziamenti. La
logica del Jobs Act è stata, infine, registrata anche dal sistema delle
comunicazione obbligatorie del ministero del lavoro che ieri ha
pubblicato l’aggiornamento dei dati sullaq riforma renziana per
eccellenza, quella lodata da Angela Merkel come «impressionante».
Impressionante lo è, in effetti, questa riforma, ma non nel senso del
successo celebrato, con poca convinzione e come un disco rotto, a bordo
della portaelicotteri Garibaldi e a largo di Ventotene nel dimenticato
vertice Italo-Franco-Tedesco di fine agosto.
In primo luogo
l’occupazione «stabile» diminuisce, perché sta calando la droga degli
incentivi finanziati dal governo per sgravi contributivi dei
neo-assunti. Aumentano invece i licenziamenti – sia per la crisi, ma
soprattutto perché il Jobs Act li ha liberalizzati. In un tempo
relativamente recente questo stupido e insapore inglesismo è stato usato
per celebrare la nascita del 47esimo contratto precario: quello a
«tutele crescenti». I primi dati sui licenziamenti dimostrano che
l’unica cosa che cresce nel mercato del lavoro italiano è la libertà di
licenziare senza l’articolo 18.
Ecco i numeri: +7,4% licenziamenti
sul secondo trimestre 2016, +17,4% sul primo trimestre 2016. Tra le
altre cessazioni sono aumentate quelle promosse dal datore di lavoro
(+8,1%) mentre si sono ridotte quelle chieste dal lavoratore (-24,9%).
Nel secondo trimestre del 2016 sono state registrate 2,45 milioni di
attivazioni di contratti nel complesso a fronte di 2,19 milioni di
cessazioni. Interessante il dato sull’aumento delle cessazioni richieste
dal datore di lavoro rispetto a quelle richieste dal lavoratore: la
differenza attesta che si è tornati a licenziare, con le nuove regole,
nel 2016. A riprova che qualcosa nel Jobs Act si è inceppato c’è il dato
sulle attivazioni: rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, nel
secondo trimestre dell’anno in corso sono diminuite del 29,4%, cioè
163.099 posizioni. Dato già conosciuto da numerose rilevazioni dell’Inps
che trova oggi conferma in quello elaborato dal ministero del lavoro.
Considerata la dispersione della raccolta dei dati sull’occupazione,
divisa tra Istat Inps e Ministero, si assiste a una convergenza già in
atto da mesi e ieri nemmeno manipolata come di consueto dal governo. Va
ricordato che la differenza tra questi dati e quelli dell’Inps sta nel
considerare tutto il lavoro dipendente, compreso quello domestico,
agricolo e nella pubblica amministrazione, oltre che dei contratti di
collaborazione.
Altro dato interessante sull’occupazione
esistente: la maggior parte è a termine. Bisogna inoltre considerare che
un’altra parte è il risultato di una stabilizzazione dei contratti in
corso: 84.334 sono contratti «trasformati»: 62.705 da tempo determinato e
21.629 da apprendistato a tempo indeterminato. Dunque chi già lavorava
continua a farlo, per fortuna. Chi non aveva un posto, continua ad
essere disoccupato, o a lavorare con i voucher, ad esempio.
L’occupazione aumenta tra gli over 50 e non tra gli under 49.
Questi
numeri risentono della riduzione dell’incentivo all’assunzione a tempo
indeterminato nel 2016. E rende comprensibile il motivo per cui i
tecnici di Palazzo Chigi in queste settimane si stanno spaccando la
testa per reperire le risorse nella prossima legge di bilancio e
allungare di un biennio questi incentivi. Senza questi fondi pubblici
elargiti a pioggia alle imprese il bilancio del Jobs Act sarà peggiore.
Com’è evidente sin dall’inizio, infatti, una volta terminati gli
incentivi, l’occupazione tornerà a livelli confacenti a un periodo di
crescita senza occupazione fissa, deflazione e stagnazione. Ovvero, alla
situazione che Renzi, Padoan e il governo tutto hanno cercato di
nascondere mettendo in circolo poco più, poco meno, di 10 miliardi di
euro per un triennio di risorse pubbliche ad uso di privati.
«Il
tonfo del Jobs Act è ormai certificato» sostiene Arturo Scotto,
capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana». «Ministero reo confesso,
il Jobs Act è un fallimento» concludono i parlamentari Cinque Stelle.
Cesare Damiano (Pd) ritiene che sia venuto «il momento di porsi
seriamente il problema della manutenzione del Jobs Act. è prematuro
decretare la morte». Probabilmente è vero: la renzianissima riforma è
uno zombie agitato nei vertici europei per chiedere la grazia della
«flessibilità». Ai danni dei precari e disoccupati.
I sindacati
sono preoccupati. Per il segretario confederale Giuglielmo Loy «occorre
ancora dare ossigeno all’unico strumento di tutela per imprese e
lavoratori, la cassa integrazione, rendendola più flessibile nella
durata». Per tutti gli altri non coperti da questa misura occorrerebbe
un reddito di base. Ma nel paese delle riforme del lavoro
«non-ancora-morte» e della crescita-raso-zero nessuno si pone il
problema delle tutele universali.