sabato 10 settembre 2016

il manifesto 10.9.16
Lo schiaffo del soldato
Lavoro. Renzi rimanda la data del referendum. Ma i dati forniti dal ministero del lavoro non lasciano scampo alla facile propaganda
di Alfonso Gianni

Solo una settimana fa, in apertura del Forum Ambrosetti a Cernobbio, Matteo Renzi dichiarava che «l’Italia va meglio, ma non basta». Una pallida retromarcia rispetto ai soliti toni trionfalistici, ma che già appariva alquanto temeraria a fronte della revisione sui dati del Pil operata dall’Istat che impietosamente confermavano per il nostro paese una crescita zero nel secondo trimestre su base congiunturale, con un leggero ritocco di un decimo di punto (dallo 0,7 allo 0,8%) per quanto riguarda la variazione tendenziale sullo stesso trimestre del 2015.
Ma i dati sui consumi popolari, sulla disoccupazione e sui licenziamenti resi noti in queste ore ci dicono che non solo non basta, ma che l’Italia non va affatto meglio.
Il rapporto Nielsen per la Coop conferma, con qualche trascurabile differenza, recenti ricerche analoghe.
Il carrello dei supermercati resta vuoto. Nel primo semestre dell’anno in corso diminuiscono le vendite di grocery (- 1,4%), ovvero dei prodotti confezionati di largo consumo, mentre anche nel discount si tira la cinghia (- 2,6%). La ripresina del 2015 tanto sbandierata è già un lontano ricordo. La presunta “modernizzazione” dei gusti alimentari degli italiani conta assai poco.
Pesa in modo schiacciante la massiccia erosione dei redditi che riduce la capacità d’acquisto di beni non certo voluttuari, particolarmente dall’inizio della crisi ad oggi, cioè da quasi dieci anni oramai. Si consuma meno e contemporaneamente diminuisce il risparmio, calato di tre punti percentuali. Chi avrebbe maggiore bisogno e potenzialità di consumo, ha meno risorse immediatamente spendibili sui mercati, quelli alimentari intendo. L’effetto “80 euro” se mai c’è stato è servito a sanare vecchi debiti, più che a riaccendere i consumi ed è comunque finito da tempo.
La promessa di inserire qualche spicciolo nella prossima legge di stabilità si scontra con la realtà della crescita zero, certificata dai dati Istat, e contro una rinnovata rigidità della Ue, che non si lascia commuovere nemmeno dal terremoto. La nefasta ossessione tedesca per l’austerità, come ha scritto Paul Krugman, continua ad onta degli evidenti danni economici e sociali (persino il mitico surplus della bilancia commerciale tedesca si è ridotto a causa di un sensibile calo delle esportazioni maggiore di quello delle importazioni) e anche dei crescenti insuccessi elettorali in patria della cancelliera.
Ma lo schiaffo più forte al soldato Renzi è giunto proprio dalle sue retrovie.
I dati forniti dal Ministero del lavoro – le cosiddette comunicazioni obbligatorie – non lasciano scampo alla facile propaganda. Calano le assunzioni e aumentano i licenziamenti. Nel secondo trimestre del 2016 il saldo fra attivazioni (2,45 milioni) e cessazioni di rapporti di lavoro resta ancora attivo e la maggioranza di queste ultime derivano dalla fine dei contratti a termine (1,43 milioni su 2,19).
Ma tra le restanti uscite sono aumentate quelle attivate dal datore di lavoro (+ 8,1%) rispetto a quelle derivanti da dimissioni della lavoratrice o del lavoratore (-24,9%). In particolare sono aumentati i licenziamenti. Ben 221.186. Cioè 15.264 in più rispetto al secondo trimestre dell’anno scorso. Preferisco usare i numeri assoluti perché si tratta di persone in carne ed ossa (ma per chi è affezionato alle percentuali: si tratta di un incremento del 7,4% sempre rispetto al secondo trimestre del 2015).
La componente femminile appare essere la più penalizzata. Come già nel primo trimestre, anche nel secondo le uscite dal rapporto di lavoro per prepensionamento sono crollate di quasi la metà (-47%), non certo per libera scelta, ma a seguito della ulteriore stretta sui requisiti per la pensione di vecchiaia entrati in vigore quest’anno.
Né ci può consolare, a fronte di una disoccupazione giovanile che sfiora il 38%, l’incremento dell’utilizzo del contratto di lavoro di apprendistato. Più che un merito di “Garanzia Giovani”, il programma tanto reclamizzato dal ministro Poletti, questo fenomeno dimostra che, terminate le migliori condizioni in termini di sgravi fiscali previste dal Jobs Act, ritorna in vigore la vecchia cassetta degli attrezzi del mercato del lavoro. Ma agendo solo sul versante della liberalizzazione del rapporto di lavoro non è possibile interrompere questo movimento del pendolo.
Ha voglia Renzi a rimandare il più in là possibile la fissazione della data del Referendum costituzionale. Un governo serio l’avrebbe già decisa. Se sperava di guadagnare tempo per arrivarci, come pare gli abbia suggerito Giorgio Napolitano in persona, sulla base di una legge di stabilità generosa, sarà bene che si dia una ridimensionata. Il vertice Euro-Med di Atene, giustamente voluto da Alexis Tsipras quanto avversato dalla Germania – in vista del Consiglio di Bratislava del 27 settembre e dell’appuntamento romano del marzo del 2017 in occasione del 60esimo della firma dei Trattati Cee – si è chiuso con un documento che impegna i paesi sottoscrittori su una economia che punti a possibilità di crescita uguali per tutti, sulla coesione sociale, su una diversa gestione della epocale questione dei migranti.
Nell’occasione Renzi ha diffuso parole mielose, parlando di un’Europa sociale, della bellezza, degli ideali. Ha parlato addirittura, utilizzando un’espressione americana, di soft power, di potere gentile. Il contrario di quello che fa.