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Le società scientifiche, finanziate da Big Pharma, abbassano le soglie che definiscono le patologie. E il numero dei malati aumenta
Le società scientifiche, finanziate da Big Pharma, abbassano le soglie che definiscono le patologie. E il numero dei malati aumenta
I
soldi di Big Pharma che ci rendono tutti malati
di
Roberta Villa
Estate
2015: le autorità regolatorie statunitense ed europea approvano uno
dopo l’altro due farmaci capaci di abbassare il tasso di
colesterolo nel sangue più di qualunque medicinale preesistente, con
un meccanismo totalmente innovativo. Sono anticorpi monoclonali, si
chiamano Repatha e Praluent, e sono prodotti rispettivamente da Amgen
e Sanofi. In arrivo, nel 2017, ce n’è anche un altro, da Pfizer.
Sono indicati per i pazienti in cui le cure finora disponibili non
riescano a ottenere i livelli di colesterolo richiesti: già così,
un potenziale mercato globale di milioni di clienti. Estate 2016: la
Società europea di cardiologia (ESC) tiene a Roma il suo congresso e
rende note le sue nuove linee guida aggiornate per la gestione delle
dislipidemie, l’eccesso di grassi nel sangue, appunto. Alcuni
organi di stampa italiani riprendono la notizia sintetizzandone così
le conclusioni: «Abbassati i livelli raccomandati di colesterolo
“cattivo”: anche per chi non ha altri fattori di rischio, le
cosiddette LDL non devono mai superare il valore di 100mg/dL». La
coincidenza fa insospettire. Gli interessi in gioco non sono
altissimi. Di più. Ogni volta che si abbassa una soglia considerata
patologica, il numero di persone che dovranno ricorrere ai farmaci
per ridurre il loro rischio di malattia aumenta come l’area di un
triangolo di cui si sposti in giù la base. È successo negli anni
anche per glicemia e pressione arteriosa, per cui sono stati
inventati i termini“prediabete” e “preipertensione”: non vere
e proprie malattie, e nemmeno ancora fattori di rischio, ma
condizioni che potrebbero portare a quelli. Da trattare comunque con
le medicine, quando gli stili di vita non bastano. E si sa: dal punto
di vista delle persone, prendere un pastiglia al giorno, o farsi
un’iniezione sottocutanea al mese, è più facile che cercare di
perdere peso, mangiare meglio o muoversi di più; dal punto di vista
delle case farmaceutiche, avere clienti sani che acquistano i loro
prodotti per tutta la vita, per ridurre fattori di rischio, è molto
più redditizio che trattare i malati, ai quali le cure servono solo
per un periodo di tempo molto più ristretto. In questo caso, poi, i
nuovi farmaci non fanno parlare solo per la loro efficacia, ma anche
per il loro costo: oltre 14 mila dollari l’anno, più di mille
dollari al mese. La questione della sostenibilità delle cure, che
già mette alle strette i sistemi sanitari su altri fronti, come i
trattamenti per l’epatite C o per alcune forme di cancro, in questo
caso si dilata, poiché si tratta di una spesa da protrarre per tutta
la vita e di una popolazione considerevolmente più ampia, che
l’interpretazione data alle nuove linee guida allarga ancora di
più. Le dichiarazioni di alcuni cardiologi italiani per cui il
colesterolo «più basso è, meglio è», indipendentemente dai
fattori di rischio, arriva dopo solo due mesi dalla pubblicazione sul
British Medical Journal di una revisione sistematica della
letteratura che smentisce questo principio. Anzi, oltre i 60 anni, la
mortalità sembra ridursi all’aumentare dei livelli di colesterolo
“cattivo”. La conclusione, che deriva dai dati raccolti su oltre
68 mila persone, non scalfisce la sicurezza dei nostri esperti: «Il
colesterolo è il vero e più importante fattore di rischio per le
malattie del cuore», ribadisce Francesco Romeo, presidente della
Società italiana di cardiologia. «Abbassando le LDL fino a 70 mg/dl
si riesce a fermare la malattia o addirittura a far regredire la
placca aterosclerotica. Un intervallo tra 70 e 100mg/dl è
raccomandato a tutti, indipendentemente dalla presenza di fattori di
rischio». Ma le nuove Linee guida dicono proprio così? A guardare
la tabella che riassume le raccomandazioni della società europea non
sembra. La vera novità, che meritava i titoli dei giornali, è
piuttosto la maggiore insistenza sulla necessità di migliorare gli
stili di vita. Interpellato da pagina99, anche Alberico Catapano,
presidente della Società europea dell’Aterosclerosi e primo
firmatario del documento, smentisce la lettura che ne è stata fatta
in Italia: «I limiti sono rimasti invariati rispetto alle Linee
guida del 2011», puntualizza Catapano, docente di farmacologia
all’Università degli Studi di Milano. «Anzi, seguendo i nostri
consigli bisognerebbe ricorrere ai farmaci solo quando il rischio è
medio-alto, molto meno spesso di quel che raccomandano le Linee guida
statunitensi, secondo cui andrebbero trattati già pazienti con un
rischio pari a un terzo di quello che indichiamo noi». Solo un
equivoco con la stampa, quindi, che nessuno si è preoccupato di
chiarire? Difficile da dire. Purtroppo ancora oggi, nonostante da
decenni si parli di trasparenza, è difficile verificare con certezza
la presenza di conflitti di interesse. Il codice sulla trasparenza
dell’Efpia (European Federation of Pharmaceutical Industries and
Associations), sottoscritto da oltre 200 aziende farmaceutiche
italiane, impegna l’industria, a partire da quest’anno, a rendere
pubblici, sui propri siti, i «trasferimenti di valore» versati
nelle tasche di operatori od organizzazione sanitarie. Ma questi dati
comprendono finanziamenti, donazioni, sponsorizzazioni di congressi,
compensi per prestazioni professionali di diverso tipo, e spesso non
permettono di riconoscere né le attività specifiche a cui sono
destinati i fondi, né il destinatario ultimo del supporto economico,
per l’intermediazione di terze parti, come agenzie di comunicazione
o società per la formazione continua in medicina. L’International
Atherosclerosis Society, con sede presso la Fondazione Locosì ci
convincono che il colesterolo più basso è meglio è
indipendentementedai fattori di rischio, arriva dopo
solo
due mesi dalla pubblicazione sul British Medical Journal di
una revisione sistematica della letteratura che smentisce questo
principio. Anzi, oltre i 60 anni, la mortalità
sembra
ridursi all’aumentare dei livelli di colesterolo “cattivo”. La
conclusione,
che
deriva dai dati raccolti su oltre 68 mila persone, non scalfisce la
sicurezza dei nostri esperti: ««Il colesterolo è il vero e più
importante fattore di rischio per le malattie del
cuore»,
ribadisce Francesco Romeo, presidente della Società italiana di
cardiologia. «Abbassando le LDL fino a 70 mg/dl si riesce a fermare
la malattia o addirittura a far regredire la placca aterosclerotica.
Un intervallo tra 70 e 100mg/dl è raccomandato
a
tutti, indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio». Ma
le nuove Linee guida dicono proprio così? A guardare la tabella che
riassume le raccomandazioni della società europea non sembra. La
vera novità, che meritava i titoli dei giornali, è piuttosto la
maggiore insistenza sulla necessità di migliorare gli stili di vita.
Interpellato da pagina99,
anche
Alberico Catapano, presidente della Società europea
dell’Aterosclerosi e primo firmatario del documento, smentisce la
lettura che ne è stata fatta in Italia: «I limiti sono
rimasti
invariati rispetto alle Linee guida del 2011», puntualizza Catapano,
docente di farmacologia all’Università degli Studi di Milano.
«Anzi, seguendo i nostri consigli bisognerebbe ricorrere ai farmaci
solo quando il rischio è medio-alto, molto meno
spesso
di quel che raccomandano le Linee guida statunitensi, secondo cui
andrebbero trattati già pazienti con un rischio pari a un terzo di
quello che indichiamo noi».
Solo
un equivoco con la stampa, quindi, che nessuno si è preoccupato di
chiarire? Difficile da dire. Purtroppo ancora oggi, nonostante da
decenni si parli di trasparenza, è difficile
verificare
con certezza la presenza di conflitti di interesse. Il codice sulla
trasparenza dell’Efpia (European Federation of Pharmaceutical
Industries and Associations), sottoscritto da oltre 200 aziende
farmaceutiche italianeimpegna l’industria, a
partire
da
quest’anno, a rendere pubblici, sui propri siti, i «trasferimenti
di valore » versati nelle tasche di operatori od organizzazione
sanitarie. Ma questidati comprendono finanziamenti,
donazioni,
sponsorizzazioni di congressi, compensi per prestazioni professionali
di diverso tipo, e spesso non permettono di riconoscere né le
attività specifiche a cui sono destinati
i
fondi, né il destinatario ultimo del supporto economico, per
l’intermediazione
di
terze parti, come agenzie di comunicazione o società per la
formazione
continua
in medicina. L’International Atherosclerosis Society, con sede
presso la Fondazione Lorenzini di Milano, nel 2015 per esempio ha
preso 120.500 euro per la realizzazionedi eventi da Amgen, l’azienda
che ha prodotto il primo anticorpo
anticolesterolo
approvato in Europa. L’Anmco (Associazione Nazionale dei Medici
Cardiologi Ospedalieri) ne ha ottenuti quasi 400.000 da Amgen e oltre
97.000 da Sanofi,
che
produce l’altro anticorpo monoclonale. E questo solo per restare
nell’ambito
dell’episodio
da cui si è partiti. Ma questi finanziamenti di per sé non hanno
nulla di illecito.
«Nella
maggior parte dei casi questi fondi servono per l’organizzazione
dei congressi annuali, per i quali le quote associative non bastano»,
precisa Paolo Vercellini, docente di ginecologia e ostetricia
all’Università degli Studi di Milano. «La presenza
di
flussi di denaro che determina una condizione di conflitto di
interessenon implica comunque di per sé comportamenti poco
etici. Quel che manca è solo un po’ più di trasparenza». Le
singole società o associazioniinfatti, a differenza delle aziende,
non
hanno nessun obbligo di dichiarare pubblicamente, e quantificare, il
sostegno che ricevono. «Questa disclosure invece
permetterebbe di contestualizzare le informazioni
che
provengono dalle società scientifiche, sotto forma di interventi ai
congressi annuali, contenuti delle loro riviste, corsi per la
formazionecontinua dei medici o pubblicazione
di
linee guida», prosegue Vercellini, che ha condotto un’analisi,
pubblicata su BMJ Open, sui siti delle società italiane di
ginecologia e ostetricia, nessuno dei quali riportava
questo
tipo di informazioni. «Non sono eccezioni: il bilancio annuale è
reso pubblico sul propriosito solo da otto delle 131 società
medico-scientifiche italiane che abbiamo
passato
al setaccio», spiega Alice Fabbri, del Centro di Ricerche in
Farmacologia
Medica
dell’Università dell’Insubria, Varese, in un altro studio
pubblicato sulla stessa testata scientifica internazionale. Chi ha
visto il film Il venditore di medicine, di Antonio Morabito,
del 2013, ha potuto farsi un’idea della strategia di marketing
tradizionale
delle
aziende farmaceutiche, quando alcuni offrivano regali e viaggi ai
medici
perché
prescrivessero il più possibile dell’uno o dell’altro
medicinale. Si chiama comparaggio, e in Italia è perseguito come
reato, oltre che essere proibito dal Codice deontologico. Se questo
approccio per vendere di più puntava sull’incrementare l’offerta,
un
altro, più subdolo, agisce gonfiando piuttosto la domanda di
farmaci, permettendo alle aziende perfino di risparmiare. Gli
investimenti, invece di essere dispersi a pioggia su decine di
migliaia dimedici, si possono infatti concentrare neiconfronti di
società scientifiche o associazioni di pazienti. Agendo su questi
due fronti si può ottenere il
massimo
rendimento con il minimo sforzo, senza che il nome dell’azienda
compaia apertamente da nessuna parte. Le società scientifiche
possono essere indotte ad allargare le indicazioni terapeutiche,
attraverso la stesura di linee guida ma soprattutto con il volano
della formazione continua dei medici, che in Italia è quasi
esclusivamente appaltata a corsi
sponsorizzati
dall’industria e che muove milioni di euro.
Daparte
loro anche i pazienti sono spesso strumenti, più o meno
inconsapevoli,
di
operazioni commerciali e di marketing, chiamati a fare pressione
sull’opinione pubblica, e quindi sul governo e sulle autorità
regolatrici, con una voce apparentemente
al
di sopra di ogni sospetto, ma che in realtà è prestata
all’industria. Spesso
così
si assiste a un tiro alla fune tra le diverse esigenze – per
esempio pazienti
oncologici
contro portatori di epatite C – per aggiudicarsi i fondi a
disposizione, resi sempre più insufficienti dai prezzi proibitivi
dei farmaci innovativi. «La coperta è sempre
più
corta ed è perfettamente lecito che ognuno faccia advocacy per la
propria causa», precisa Francesco Longo, direttore delCentro di
Ricerche sulla Gestione dell'Assistenza Sanitaria e Sociale (Cergas)
dell’UniversitàBocconi:«Il dibattito sulle diverse esigenze
dovrebbe però avvenire alla luce del sole, per lasciare poi alle
autorità competenti la scelta di definire le priorità». Purtroppo
non avviene così, e anche i legami delle associazioni dei pazienti
con le aziende sono poco trasparenti.
In
uno studio pubblicato qualche anno fa su PlosOne, un gruppo di
ricercatori dell’Istituto MarioNegri di Milano ha dipinto un quadro
poco edificante: «Tredici dei 17 siti di aziende farmaceutiche che
abbiamo considerato riportavano sul loro sito di avere sostenuto
almeno uno dei gruppi di pazienti citandone il nome. Solo due
quantificavano
questo
aiuto. Su 157 associazioni di pazienti e consumatori che avevano
ricevuto finanziamenti dalle aziende, meno del 30 per cento riportava
di avere ricevuto fondi da almeno un’azienda e solo tre riportavano
l’ammontare del supporto», spiega Cinzia
Colombo,
che ha guidato il lavoro.
È
vero che i finanziamenti pubblici, che non bastano a sostenere la
ricerca,
ancor
meno si preoccupano dell’attività capillare delle associazionidi
pazienti, il cui ruolo però è preziosissimo per sostenere e
indirizzare i malati. «D’altra parte, l’abbraccio
con
le aziende può essere pericoloso», prosegue la ricercatrice, «prima
di
tutto perché in tal modo le associazioni possono, anche
involontariamente,
veicolare
messaggi promozionali, poi perché possono avere difficoltà
nel
mantenere una posizione autonoma, infine perché la credibilità
di
un’associazione è un valore prezioso e in questo abbraccio dai
contorni
spesso
sfumati e difficile da gestire rischia di indebolirsi».
È
capitato in passato, può capitare di nuovo. I programmi di
formazionedei pazienti possono diventare
strumenti di marketing, a volte tutt’altro che innocui: un
documento prodotto in tribunale già nel 2001 testimoniò che la
Merck sosteneva il programma
educativo
per la gestione del dolore della Arthritis Foundation ai fini della
promozione
di un farmaco, il Vioxx, poi ritirato perché raddoppiava il
rischio
di gravi eventi cardiovascolari.
L’Alzheimer
Society UK, finanziata dall’industria, si alleò con la Pfizer
contro
il National Institute for Clinical Excellence britannico, quando
l’ente
regolatorio limitò l’uso del donepezil per la sua scarsa
efficacia.
L’EpaC,
l’associazione che dovrebbe difendere gli interessi dei pazienti
con
epatite C, solo l’anno scorso ha ricevuto 70 mila euro da Gilead
e,
sommando le varie voci, più di 300mila da
Abbvie, due tra i principali
produttori
dei nuovi, costosissimi farmaci che hanno rivoluzionato il
trattamento
della malattia. «Per anni l’associazione si è battuta perché
questi
medicinali fossero gratuitamente a tutti. Non solo, come già
avviene,
ai
pazienti con malattia in fase avanzata, ma a tutti i portatori del
virus,
anche
quelli senza disturbi, che non svilupperanno mai danni al fegato,
nella
speranza di poter così eradicare l’infezione. L’investimento
necessario
a perseguire questo obiettivo in Italia, con i costi attuali dei
farmaci,
è però da molti giudicato insostenibile, a meno di sacrificare
pesantemente
altre
importanti voci di spesa. Per questo il sito saluteinternazionale.
info
si è fatto promotore di un’iniziativa che, attraverso una
clausola
di deroga ai trattati internazionale sui brevetti (licenza
obbligatoria),
già
sfruttata in altri casi, consenta di produrre gli antivirali generici
a
un prezzo ragionevole e accessibile a tutti. «Pensavamo che Epac
sarebbe
stata
tra i primi ad aderire», dice Gavino Maciocco, «invece, tra le
140
firme di singoli e organizzazioni già raccolte a sostegno della
petizione,
spicca
proprio la loro mancanza».