È vero che il Vaticano vi ha scritto una lettera chiedendovi di non fare il concerto di Venerdì santo, o almeno di cominciare dopo la mezzanotte?
«La verità è che sono stati in due a chiederci di cambiare data, Obama e il Vaticano. Nel primo caso l’arrivo del presidente ci ha spinti a scegliere la data del 25 marzo perché le difficoltà organizzative sarebbero state eccessive, nel secondo caso non avremmo potuto nuovamente cambiare la data, sarebbe stato tutto troppo complicato».
Quindi cosa avete risposto?
«Non volevamo di certo far dispiacere al Papa, ma abbiamo sottolineato che per molti cubani non era una festa religiosa e che in tutto il mondo si sarebbero svolte moltissime altre manifestazioni e concerti nel Venerdì santo. Avevamo un impegno e volevamo mantenerlo, così abbiamo fatto».
Repubblica Cult 18.9.16
Soddisfatto di essere andato all’Avana
Alla vigilia di “Havana Moon”, il film che celebra lo storico concerto dei Rolling Stones a Cuba, Mick Jagger racconta in esclusiva il dietro le quinte dello show: “È stata dura, ma dopo la visita del Papa e quella del presidente americano non potevamo mancare noi”
di Ernesto Assante
LA BANDIERA CUBANA BRILLA LUMINOSA sul grande palco, Mick Jagger è l’ultimo a entrare in scena mentre le chitarre di Keith Richards e Ron Wood sferzano l’aria. “I was born in a crossfire hurricane” canta Jagger, la prima strofa di Jumpin’Jack Flash, e il boato del pubblico saluta le prime note con un entusiasmo alle stelle. Inizia così Havana Moon, il film realizzato da Paul Dugdale il 25 marzo 2016, il giorno in cui i Rolling Stones sono diventati il primo gruppo rock a esibirsi in un gigantesco concerto gratuito davanti a centinaia di migliaia di persone all’Avana, Cuba. Un concerto storico, avvenuto nella settimana in cui Barack Obama diventava il primo presidente degli Stati Uniti a visitare Cuba in ottantotto anni, testimoniato dalle immagini di Dugdale che mettono insieme le strade dell’Avana e le note degli Stones, i volti del pubblico che festeggia il rock’n’roll e uno squarcio di libertà. Un film che racconta un evento in cui la musica, come molte altre volte è accaduto nella storia, in quella del rock in particolare, è la chiave attraverso la quale si aprono porte che potrebbero non chiudersi più. Anche attraverso un evento in apparenza non politico come un concerto si può insomma finalmente incominciare a immaginare un futuro diverso per Cuba e in molti si augurano sia il segno definitivo di un cambiamento, qualcosa che segna un punto fermo.
«Sognavamo da anni di poter suonare a Cuba ma era davvero un progetto impossibile», ci dice al telefono da Londra Mick Jagger. «Poi, quando i rapporti internazionali hanno inziato a cambiare, io e Keith ne abbiamo discusso di nuovo e abbiamo pensato che fosse giunto il momento di provarci davvero. Ma un conto è parlarne e un altro conto è decidere di andarci davvero. I problemi per realizzare un concerto degli Stones a Cuba erano molti. Altri prima di noi avevano già suonato sull’isola, ma quasi tutti in posti al chiuso o con un pubblico meno numeroso. Noi invece volevamo fare un grande concerto all’aperto. E per fare una cosa grande servivano molti soldi. Soprattutto per risolvere i vari problemi logistici, tipo come raggiungere l’isola con tutto il materiale. E poi volevamo che fosse gratuito, cosa ancora più difficile. Comunque, a un certo punto ci è sembrata la cosa giusta da fare e abbiamo semplicemente cominciato a ragionare su come poteva essere fatto. Ci abbiamo messo quasi un anno».
Un lavoro estremamente complesso anche per “la più grande rock’n’roll band del mondo”?
«Sì, avevamo lanciato parecchie palle in aria e nessuna doveva cadere per terra (ride,
ndr). Avevamo bisogno di molto aiuto da parte di un mucchio di gente per portare a termine il progetto. Innanzitutto i costi: come fare a sostenere un’operazione che costa svariati milioni di dollari? E prima ancora dei costi siamo dovuti partire dal farci dare il permesso del governo cubano attraverso l’Istituto cubano della musica. Ma non bastava: molti della nostra crew sono americani, quindi avremmo avuto bisogno anche dell’aiuto del governo degli Stati Uniti. E poi ci serviva anche l’appoggio del governo e dell’ambasciata inglese a Cuba. Insomma sì, una faccenda decisamente complessa, anche per “la più grande rock’n’roll band del mondo”».
Vuole dire che persino Sir Mick Jagger, oltre alla musica, ha dovuto impegnarsi perché tutto filasse liscio ?
«Esattamente, ma va detto che avevamo con con noi un ottimo team di persone in grado di risolvere ogni problema, soprattutto la nostra manager, Joyce Smith, e le persone della Aeg West. E comunque sono andato a Cuba diverse volte prima del concerto per cercare di capire bene la situazione e per poterla affrontare nel modo migliore. Ho incontrato un sacco di cubani, e molti stranieri che vivono o lavorano lì, e ho cercato di avere tutte le informazioni necessarie».
Ha incontrato anche Raul Castro, o Fidel?
«No, ma mentre ero in vacanza ho incontrato una delle figlie di Raul».
Di grandi concerti ne avete fatti moltissimi nella vostra carriera. Cosa aveva questo di veramente speciale?
«È stato diverso da tutti gli altri. Lo so, sembra retorica, una frase fatta, ma può credermi. Pensavamo fosse giusto farlo. L’idea di fare un grande concerto all’Avana era troppo bella per essere messa da parte, soprattutto in un momento così importante per l’isola. E poi c’era il divertimento dei cubani, l’idea di fare una bella “night out of fun”, peraltro in un periodo pazzesco, con il Papa, Obama e gli Stones. Francamente, un’occasione da non perdere. Abbiamo suonato molte altre volte in Sudamerica, abbiamo suonato nei grandi stadi o comunque in spazi con pubblico a perdita d’occhio, ma ovunque abbiamo sempre dovuto affrontare un’organizzazione relativamente semplice. A Cuba invece non c’era nulla di pronto, abbiamo dovuto portare tutto noi da fuori: nessuno aveva mai organizzato un concerto simile. E poi non sapevamo nemmeno come avrebbe reagito il pubblico cubano, non avevamo neppure idea se conoscessero le nostre canzoni — la nostra musica è stata vietata a lungo sull’isola. Ma al di là di questo eravamo ambasciatori di una nuova realtà per i cubani, il concerto avrebbe avuto comunque un impatto politico e culturale. E poi arrivare, come ho detto, a pochi giorni di distanza dalla visita di Obama portava con sé molti significati. Primo fra tutti quello di inserire Cuba in un contesto internazionale, quello nordamericano, dal quale è stata per molto tempo esclusa. Insomma, non era solo rock’n’nroll. E lo sapevamo».
La vostra visita avrà un impatto anche sulla vita dei cubani?
«Lo sapremo solo sul lungo termine, per ora non sono in grado di rispondere a una domanda come questa. Ci vorrà tempo per capire se ci sarà una liberalizzazione, un ammorbidimento della dittatura: i regimi oppressivi non hanno mai tempi brevi».
Come avete scelto la scaletta delle canzoni da suonare?
«Non c’è stato un lavoro particolare, abbiamo proposto più o meno lo stesso repertorio che facciamo negli altri nostri concerti».
Ma cantare “Satisfaction” a Cuba non è come cantarla a Londra. Cosa rende, a suo avviso, una canzone come “Satisfaction” ancora così contemporanea e così politica?
«Sì, è una canzone che ha ancora un significato, se non lo avesse non piacerebbe ancora così tanto. Parla di una condizione in cui tutti, ancora, sfortunatamente, possono trovarsi: essere insoddisfatti. Ognuno ci può leggere la propria insoddisfazione. Di sicuro è una canzone che a Cuba può assumere un significato diverso. A Cuba la chiamano “la battaglia”, e per molti cantare Satisfaction è stato emozionante. Soprattutto per i più anziani, quelli che non hanno vissuto i grandi cambiamenti degli anni Sessanta nel mondo occidentale perché vivevano in un regime comunista oppressivo, non avevano il permesso di fare quello che volevano o di ascoltare la musica che volevano. Moltissimi sognavano di poter vedere un concerto come il nostro quando erano più giovani e non immaginavano sarebbe potuto accadere. Me ne sono reso conto parlando con alcuni di loro, erano davvero commossi, emozionati, è una cosa che mi ha colpito moltissimo. Ma, appunto, erano i più anziani a caricare tutto di un significato diverso, per i più giovani contava molto il divertimento, il fatto di poter passare una serata straordinaria, di poterla condividere con tanti altri».
Che cosa significa per lei la parola “libertà”?
«È una parola molto abusata al giorno d’oggi. È ovvio che abbia significati molti diversi per me o per una persona che vive all’Avana. Ma sostanzialmente esprime lo stesso concetto: la possibilità di vivere dicendo quello che vuoi dire, facendo quello che vuoi fare, cantare, suonare, esprimersi, e avendo come unico limite la libertà altrui. Praticare la tua libertà finché questa non fa male a qualcunaltro, finché nel farlo non dai fastidio a troppa gente per troppo tempo. Con una regola semplice puoi avere una buona vita senza salire sui piedi degli altri. Certo, è un concetto di libertà che si applica al mondo occidentale, basato sull’idea della libertà individuale, una libertà che noi abbiamo conquistato con il tempo. Altre società oggi non ce l’hanno, perché si sono costituite su altri valori, società per le quali conta di più l’economia o la religione. Non bisogna dimenticare, però, che la nostra è stata una società difficile per molti secoli, a causa delle nostre religioni, dei nostri egoismi, delle nostre idee, abbiamo avuto dittature e orrori. Ma sappiamo che le cose cambieranno, come sono cambiate da noi, sappiamo che ci sono persone che aspirano alla libertà, magari non ai nostri modelli, ma a quelli che loro vorranno darsi».
Ricorda il primo concerto che gli Stones fecero fuori dall’Inghilterra?
«Certo che lo ricordo. Fu in Olanda, all’Aja. Riuscimmo a suonare poche canzoni, poi la folla che spingeva sotto al palco trasformò tutto in un grande casino».
Le piace ancora fare concerti?
«Sì, è una magnifica esperienza. E poi gli Stones sono fatti per suonare dal vivo, abbiamo sempre fatto concerti, è il nostro modo di andare avanti».
È vero che il Vaticano vi ha scritto una lettera chiedendovi di non fare il concerto di Venerdì santo, o almeno di cominciare dopo la mezzanotte?
«La verità è che sono stati in due a chiederci di cambiare data, Obama e il Vaticano. Nel primo caso l’arrivo del presidente ci ha spinti a scegliere la data del 25 marzo perché le difficoltà organizzative sarebbero state eccessive, nel secondo caso non avremmo potuto nuovamente cambiare la data, sarebbe stato tutto troppo complicato».
Quindi cosa avete risposto?
«Non volevamo di certo far dispiacere al Papa, ma abbiamo sottolineato che per molti cubani non era una festa religiosa e che in tutto il mondo si sarebbero svolte moltissime altre manifestazioni e concerti nel Venerdì santo. Avevamo un impegno e volevamo mantenerlo, così abbiamo fatto».
Nessun confine, nessuna separazione, libertà e unità, cose che avete sempre sostenuto e cantato. Quindi, cosa pensa della Brexit?
«Avremo grandi relazioni con tutti. Abbiamo sempre avuto un rapporto ottimo con gli italiani. Continueremo ad averlo».