domenica 25 settembre 2016

Corriere La Lettura 25.9.16
Sì, I was Born in the Usa. Ma mi sento italiano
La mamma Adele, il nonno Anthony sbarcato in America da Vico Equense appena dodicenne, l’infanzia «colorita» a Freehold, New Jersey. Ma anche l’abisso della depressione (ereditata dal padre irlandese) da cui lo ha salvato la moglie Patti
Esce il 27 settembre in tutto il mondo l’autobiografia di Bruce Springsteen
di Pasquale Elia

D’accordo, Born in the Usa . Sarà anche nato in America, ma il fatto è che lui si sente irrimediabilmente italiano: «Noi italiani tiriamo dritto fino allo stremo delle forze, teniamo duro finché non cedono le ossa, non molliamo la presa finché i muscoli resistono, balliamo, urliamo e ridiamo finché non ce la facciamo più, fino alla fine». È così che si sente Bruce Springsteen. È così che si descrive la «voce operaia» che ha fatto a pezzi il sogno americano mostrando l’altro lato della Luna. È così che si conclude il quarto dei settantanove capitoli della corposa autobiografia ( Born to Run , Mondadori) che esce il 27 settembre in tutto il mondo.
Italiano da parte di madre, Adele, che a «novantuno anni lotta contro l’Alzheimer e sprizza un calore e un’esuberanza che il mondo di oggi forse non merita». Per Bruce, la vitalità della mamma, come quella delle zie Dora e Eda («spudorate novantenni»), resta un mistero: «Cosa c’è sotto? Qual è la fonte di tanta incrollabile energia e ottimismo? Quale potere venne prelevato dalle sfere celesti per essere infuso in quelle minute ossa italiane? Chi è il responsabile?». Il nonno, che si «chiamava Anthony Alexander Andrew Zerilli».
Era «arrivato in America dodicenne all’inizio del Novecento da Vico Equense, a un tiro di schioppo da Napoli». Si era sposato tre volte ed «era un ometto di statura modesta con un vocione da baritono che sapeva incuterti il timore di Dio». Ma Bruce lo vedeva come un gigante, e «aveva un che di grandioso e solenne... Insomma, era una forza della natura napoletana!».
Quando andava a fargli visita, il nonno lo chiamava dal fondo della casa: «L’interminabile “br”, la “a” intercalata, la “u” prolungata e scivolata e il “ce” appena accennato. “Baaaarrrruuuuuuuuuuuce... Vieni qui!”». Nella famiglia Springsteen «c’era chi lo poteva trovare dispotico», Bruce lo ricorda invece come «un uomo esaltante, spaventoso, melodrammatico, narcisista, vanitoso... insomma, un’autentica rockstar!». Ecco, forse, a chi si deve la nascita del premio Oscar per Streets of Philadelphia . Ipotesi nemmeno tanto azzardata, se è vero, come scrive nell’autobiografia, che «spesso, verso le otto e mezzo di sera, quando le luci si spengono e il sipario si alza... io sento ancora la presenza di Anthony e quell’interminabile “Baaaarrrruuuuuuuuuuuce”».
A Freehold, nel New Jersey, gli italiani gli hanno reso l’«infanzia più colorita», ma sono stati gli irlandesi che lo hanno cresciuto. Il ramo paterno della famiglia. Una figura, quella del papà Douglas Springsteen, che ha attraversato la vita di Bruce come un tornado devastandogli un bel po’ di anni. Gran bevitore, depresso, e infine in preda a una schizofrenia paranoide. «Di recente, ho chiesto a mia madre perché sia lei sia le mie zie avessero scelto uomini irlandesi. “Gli italiani erano prepotenti” mi ha risposto». Non sarà stato prepotente, ma una volta il futuro rocker del New Jersey ebbe paura per la madre: «Li sentii litigare violentemente... Non avevo più di nove, dieci anni, ma uscii dalla camera e scesi le scale con la mazza da baseball. Li trovai in cucina, lui di spalle che urlava a squarciagola, lei a pochi centimetri dal suo volto. Gli gridai di smetterla, poi lo colpii con la mazza fra le ampie spalle. Un rumore sordo, quindi il silenzio. Mio padre si girò, il volto rosso da pub, e il tempo si fermò. Alla fine scoppiò a ridere».
Oggi, di quell’uomo «stravagante», morto nell’aprile del 1998, Bruce parla con dolcezza, consapevole di aver preso da lui «la rigidità e il narcisismo... L’istinto di isolarmi... Un’attrazione profonda per il silenzio… La malinconia di un’insoddisfazione costante... La misoginia nata dalla paura di tutte le donne forti, pericolose e bellissime». Eredità pesante, compresa la depressione, «qualcosa che studio e combatto da sessantacinque anni», confessa nel libro The Boss (anche se non ama essere chiamato così). «La malinconia non ti salta addosso. Arriva strisciando... Sono sotto antidepressivi da ormai dodici, quindici anni... Fra i sessanta e sessantadue ero all’inferno, riemersi per un anno e poi di nuovo a fondo dai sessantatré ai sessantaquattro». Lo salvò la moglie, Patti Scialfa, sposata nel ’91, la madre dei suoi tre figli (Evan, Jessica e Sam). È lei che vide «un treno merci carico di nitroglicerina che deraglia rovinosamente» e che lo portò dai medici per convincerlo a prendere le pillole: «Senza quei farmaci non potrei godere della vita che vivo oggi. Funzionano. Mi riportano con i piedi per terra, a casa, dalla mia famiglia». In assenza di terapia, le giornate di Bruce erano scandite da «secchi, oceani di lacrime nere e fredde che mi sgorgavano dagli occhi come le cascate del Niagara a tutte le ore del giorno e della notte». Donna fondamentale, Patti, la sua seconda moglie. Che per quegli improvvisi scatti di incoscienza, Bruce ha pure rischiato di perdere: «Volevo distruggere chi mi amava perché non sopportavo di essere amato».
E quando si trasferirono in California, ci fu una «lite furibonda con Patti, la quale, stufa delle mie stronzate, aveva gettato il guanto e vuotato il sacco, prendere o lasciare. L’avevo esasperata. Con un piede già fuori dalla porta — quello guidato dai miei istinti peggiori — mi ero fermato a riflettere. “E dove diavolo pensi di andartene?” mi ero domandato con l’ultimo barlume di lucidità che mi rimaneva». Restò lì. Cosa che non fece con la sua precedente moglie, Julianne Phillips, da cui si separò dopo averla tradita proprio con Patti: «All’inizio cercai di convincermi che fosse solo “un’avventura”. Mi sbagliavo. Era “la” avventura. La clandestinità non durò a lungo: non appena mi resi conto che con Patti era una cosa seria vuotai il sacco con Julie, ma non c’era un modo indolore o elegante di uscirne. Dovevo ferire una persona alla quale volevo bene... E ancora oggi mi pento di quel mio comportamento».
Se Patti lo ha salvato dalla depressione, Elvis Presley da un’esistenza confinata tra «le crepe e le irregolarità del vecchio marciapiede di Randolph Street». Lo scoprì alla tv nel 1956, durante l’ Ed Sullivan Show : «Il precursore di un vasto cambiamento culturale, un uomo nuovo e moderno capace di demolire le barriere razziali e sessuali». Nella chitarra di Elvis, Bruce vide il «sacro talismano... La risposta alla mia alienazione... Un motivo per entrare in contatto con gli altri sfigati come me». Ma solo fino a quando non arrivò a New York e mise piede alla Columbia Records incantando il leggendario produttore John Hammond con Saint in the City . Purtroppo però il passato di miseria lasciato a Freehold («Benché io non ci pensassi mai, eravamo quasi poveri» e «i nonni vivevano in uno stato di sporcizia e trascuratezza che oggi mi farebbe inorridire») tornò ad azzannarlo nella Grande Mela: «L’anticipo dell’etichetta non era ancora arrivato, ed erano tempi duri, molto duri. Per la prima volta nella mia vita ero completamente al verde, tanto che dovetti mettermi a cercare cibo tra i rifiuti».
Viziato dalla nonna paterna, Alice, da bambino non gli era «proibito nulla: per un ragazzino era una libertà spaventosa... A cinque, sei anni andavo a letto alle tre del mattino e mi svegliavo alle tre del pomeriggio». Vita da rocker ante litteram . Destino segnato, lontano però dagli stereotipati eccessi da star: «Lasciarmi andare e “strafarmi” non mi interessava... La sobrietà divenne una sorta di religione personale, tanto che diffidavo di chi desiderava ed esaltava la sua mancanza». Unica eccezione, l’alcol, «in sintonia con il mio carattere, anche se non ho mai alzato il gomito per il piacere di farlo». Altro che genio e sregolatezza, si entusiasmava di più puntando su casa, famiglia, matrimonio che canterà in The River scritto per la sorella Virginia e per suo cognato Mickey.
Niente trasgressione, dunque. Piuttosto il controllo. Che aveva imposto pure ai componenti del suo gruppo: «Anche dentro la band fissavo dei paletti». Grazie ai quali, ne è convinto, «che quarantaquattro anni dopo siamo ancora quasi tutti vivi». Quasi. Perché nel giugno del 2011 un ictus si portò via Clarence Clemons. «Prima di Born to Run , Clarence era solo il gigantesco e bravissimo sassofonista nero della mia band». Con la copertina di quel disco diventò Big Man: «Eravamo unici, due come noi non ce n’erano. La cover di Born to Run era carica di un sottile mistero razziale, di un’ironia maliziosa e di una forza che prometteva di sprigionarsi». Quando morì, Bruce si sforzò di «immaginare un mondo senza Clarence... Era una colonna portante della mia vita. Perderlo fu come perdere la pioggia».
È simile a una rappresentazione teatrale, l’autobiografia di Bad Scooter (il soprannome che Springsteen assegna a se stesso nel brano Tenth Avenue Freeze-Out ). Ci sono personaggi che entrano ed escono dalle pagine come i protagonisti di uno spettacolo che compaiono in scena e poi spariscono dietro le quinte. In alcuni casi per riapparire. Più o meno la storia di Steven Van Zandt, il chitarrista della E Street Band, meglio conosciuto come Little Steven, che decise di mollare Bruce nel bel mezzo delle registrazioni di Born in the Usa (che «rimane una delle mie opere musicali più grandi e più fraintese»).
Al «compagno rock di lusso», Bruce dedica un capitolo intitolato «Buona fortuna, fratello mio» (nella versione originale del libro il titolo è identico, probabilmente in omaggio alle lontane origini italiane del chitarrista). «Steve reclamò un ruolo maggiore nella nostra partnership creativa, ma io avevo posto limiti precisi all’interno del gruppo», racconta con onestà Springsteen. Che tuttavia azzarda: «Con il senno di poi avremmo potuto evitare che le cose andassero così». E la E Street Band non si sarebbe sciolta. Gruppo indissolubilmente legato al nome di Bruce. Il quale, a dispetto delle sue simpatie politiche, convinto che «la democrazia in musica è una bomba a orologeria», cercava musicisti «per formare un insieme che è superiore alla somma delle parti». Tradotto, per lui 1+1 doveva essere uguale a 3: «È l’equazione essenziale dell’amore, dell’arte, del rock e dei gruppi rock». Formula sentimental-matematica che non garantì la sopravvivenza della E Street Band, almeno per una manciata di anni.
Figlio dell’America non più innocente di Born to Run , ma anche di un cattolicesimo («oggi frequento di rado la religione», ma è «il mondo in cui trovai le radici della mia musica») che non lo ha mai abbandonato. Tanto che il libro si chiude con due preghiere. Il Padre nostro , recitato davanti alla chiesa di St Rose of Lima a Freehold, e una supplica dai contorni laici, ma non per questo meno carica di compassione: «È la lunga e rumorosa preghiera che ti ho offerto, la mia magia, nella speranza che ti travolgesse l’anima».