Corriere La Lettura 25.9.16
Modernità addio, è l’era del silenzio
Il
 sociologo francese Michel Maffesoli invita ad aggiornare il concetto di
 utopia. Che non ha più a che fare con il sogno di una società 
perfetta
Oggi è diventata «interstiziale»: «Riguarda il qui e 
ora, non il futuro, si radica nel presente». E si manifesta nel «non 
dover dire tutto» e nella «comprensione»
intervista di Carlo Bordoni
Cinquecento
 anni dopo l’isola che non c’è di Thomas More, ci chiediamo ancora se 
sia possibile l’utopia. Non-luogo ( ou-topos ) per eccellenza ( Noplacia
 , è definita in latino) e quindi impossibile da trovare, oppure 
eu-topia , «buon luogo», come lascia intendere l’ambiguità della 
pronuncia inglese. In un caso o nell’altro, le diverse e multiformi 
utopie che si sono succedute nei secoli, fin dal tempo in cui Platone 
immaginò una città ideale, hanno regolarmente deluso le aspettative.
Più
 spesso l’utopia si è materializzata nel suo contrario, la distopia, 
ovvero un’utopia alla rovescia, capace di dipingere il peggiore dei 
mondi possibili, veri inferni sulla terra, a somiglianza di ogni 
totalitarismo. Tuttavia il concetto stesso di utopia resiste e continua a
 popolare l’immaginario collettivo, adattandosi ai mutamenti sociali e 
alle condizioni avverse. L’utopia, insomma, si fa «liquida» e permea il 
presente, riempiendo ogni spazio possibile e facendosi una sorta di 
«ammortizzatore spirituale» dell’incertezza. Questa utopia di pronto 
consumo, non più destinata a immaginare il futuro, ma a concretizzarsi 
nel presente, è stata definita da Michel Maffesoli «utopia 
interstiziale» e si ricollega alla discussa, intrigante e complessa 
nozione di postmodernità.
Che cosa è cambiato nel concetto di utopia, tra il moderno e il postmoderno?
«Bisogna
 fare una grossa differenza tra il tempo moderno e ciò che è emerso 
successivamente, la postmodernità. Nella modernità è prevalsa l’idea del
 futuro, l’idea di una società perfetta. Le due grandi caratteristiche 
dell’utopia moderna sono la lontananza nel tempo e la negazione dello 
spazio, o meglio, la de-negazione dello spazio. Una sorta di spazio 
sradicalizzato. Nel postmoderno, invece, l’utopia non è più estensiva, 
ma intensiva. Un accomodamento nello spazio. Le giovani generazioni non 
sono più politiche ma tribù che praticano un’utopia quotidiana, in 
gruppi musicali, artistici, sportivi, religiosi, col passaggio 
dall’utopia lontana a una vicina. La postmodernità come sinergia tra 
arcaismo ( archè ) e sviluppo tecnologico. Le tribù e Internet».
Cosa s’intende per «utopia interstiziale»?
«È
 l’utopia dell’ hic et nunc , un’utopia di nicchia. La definisco 
interstiziale perché appartiene al presente, non riguarda un futuro 
lontano, ma s’insinua nei piccoli spazi che restano liberi. Una sorta di
 “einsteinizzazione” del tempo, cioè una contrazione e una 
concentrazione nello spazio. Quasi un radicamento dinamico, quindi 
l’utopia come radicamento nel presente».
Se le utopie 
interstiziali fanno a meno del futuro, tanto che la società attuale è 
stata definita una società del presente, cosa ci resta del futuro?
«Ci
 sono epoche in cui il futuro non è importante, invece lo è il presente.
 Si potrebbero dire “società presentiste”. La modernità guarda al 
futuro, mentre il Quattrocento italiano, come il Rinascimento francese, 
guardava al presente. Carpe diem . Nella storia vi sono stati momenti in
 cui la temporalità è stata “presentista”. C’è una differenza tra la 
società ufficiale e quella ufficiosa: la società istituzionale resta 
futurista (nel senso che pensa al futuro), mentre quella istituente 
guarda al presente».
Molti ormai rifiutano il termine postmoderno.
 Lo considerano superato dai tempi. Zygmunt Bauman parla di «società 
liquida», considerando il prefisso «post» come una negazione, 
un’opposizione, invece che una continuità. Lei che cosa ne pensa?
«Bauman
 è venuto alla Sorbona a parlarne con me ma senza alcuna polemica. Io 
condivido l’idea di società liquida, perché si tratta di un’immagine 
metaforica, non sostanziale. Tuttavia preferisco parlare di 
postmodernità, dato che l’epoca moderna è finita. A ben vedere, la 
parola “epoca” significa in greco “parentesi”, qualcosa che è destinato a
 finire. Gli intellettuali moderni restano sulle grandi categorie 
elaborate dalla modernità nei tre secoli precedenti: progressismo, 
razionalismo, individualismo. Con un’ambiguità di fondo: vogliono 
salvare la modernità, tendono a difenderla, inserendola in diverse 
locuzioni che tradiscono questa volontà: ipermodernità, seconda 
modernità, modernità tardiva o liquida. Invece parliamo di un’altra 
epoca, per questo è post».
È così difficile liberarsi di una definizione che ha avuto grande fortuna?
«Eppure
 Baudelaire ha usato il termine modernità solo nel 1848, prima di allora
 si parlava di post-medievalità. Fra cento anni si deciderà come 
chiamare il presente, ma per il momento mi sembra giusto definirlo post ,
 qualcosa che viene dopo la modernità».
È appena uscita la 
traduzione del suo libro più recente, «La virtù del silenzio», con una 
rivalutazione quasi «liturgica» del silenzio, in opposizione all’eccesso
 di parole della modernità. Il silenzio è una virtù postmoderna?
«Sì,
 intendo la virtù nel senso di forza. Volevo mostrare che uno dei segni 
della modernità, in conseguenza del razionalismo, è che tutto deve 
essere detto. L’ideologia della trasparenza, la ricerca della verità, 
sono concetti prettamente illuministi. “La verità non può scappare” 
scriveva, non senza ironia, Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia 
della storia . La modernità vuole spiegare tutto, letteralmente spianare
 ogni piega. Oggi invece preferiamo una posizione di comprensione, non 
esplicativa. Non tutto deve essere detto, il legame sociale si crea 
meglio attraverso il silenzio. Il silenzio è produttivo di relazioni 
sociali».
Se le nuove relazioni prodotte nella postmodernità hanno
 un senso sacrale, quasi religioso, stiamo assistendo a un ritorno del 
sacro?
«Ho ripreso il concetto di “sacrale” da Jacques Maritain 
per mostrare il ritorno di un sacro non più chiuso nelle chiese ma 
diffuso. Anche i giovani che non appartengono a una religione hanno 
comunque un senso del sacro. Nel mio nuovo libro che uscirà il prossimo 
anno, Ecosofie , sviluppo questa idea: il concetto di “sacrale” come 
restituzione dei legami umani e del rapporto col divino che il 
razionalismo aveva rifiutato».
La difesa del «sacrale» comporta una condanna del carattere blasfemo di certa critica?
«È
 una dimensione provocatoria del mio libro. Abbiamo un’attitudine 
blasfema, crediamo di poter dire tutto, ma le nostre parole possono 
provocare reazioni violente. La blasfemia è una conseguenza del 
razionalismo moderno, dove tutto è permesso. È anche il vettore 
principale del dissesto sociale, perché dobbiamo ricordare che le parole
 possono essere aggressive e offensive quanto le armi».
Tornare al
 sacro rischia di far prevalere gli aspetti meno razionali, più 
emozionali dell’uomo. Ci aspetta un futuro irrazionalista?
«No, 
piuttosto non-razionalista. Weber parlava di “non-razionale”, che è 
diverso da irrazionale. E anche Vilfredo Pareto, trattando di 
“non-logica”, non intendeva significare illogico».
Guardando al futuro, lei è ottimista?
«Semmai non sono pessimista!».
 
