domenica 18 settembre 2016

Corriere La Lettura 18.9.16
Il pepe che Plinio non digeriva «Quel lusso ci porterà alla rovina»
La spezia veniva coltivata in Kerala, in una zona detta in latino «Cottonara regio»
e il suo commercio era solo uno dei molti traffici che legavano l’Europa al Subcontinente
di Livia Capponi

Strabone, celebrando gli effetti benefici della pax augustea sul commercio marittimo, osservava che nel 26-24 a.C. oltre 120 navi partivano ogni anno dall’Egitto per l’India, e ne ritornavano cariche di tesori. Fra queste dovevano esserci le gigantesche navi mercantili che, dal regno di Augusto al III secolo d.C., ma anche oltre, rifornivano l’impero di pepe indiano. Dopo il pepe la merce più trasportata dall’India erano le foglie di malàbathron , una specie di alloro raccolto nella valle del Gange, ma c’erano anche profumi, incenso, stoffe preziose, perle e pietre dure. Nel III secolo d.C., quando il commercio declinò a causa dell’instabilità politica, sembra che soltanto una nave partisse dall’India verso Roma ogni anno; eppure si stima che il suo carico fosse sufficiente a mettere 5 o 10 grammi di pepe nel piatto di ogni abitante dell’impero.
La zona di coltivazione del pepe, scoperta dai Romani, era l’area di Kuttanadu (ribattezzata dai Romani Cottonara regio ) a sud del lago Vembanad sulla costa sud-occidentale, nell’odierno stato del Kerala. Ma coltivazioni intensive di «vigne del pepe», a colonizzare interi boschi, si trovavano anche nella zona montuosa dei Ghats occidentali, fino al Kerala centrale, dov’era usato dalle popolazioni locali come moneta. Federico De Romanis e Marco Maiuro, i curatori di Across the Ocean: Nine Essays on Indo-Mediterranean Trade (Brill, 2015), ripercorrono la storia di questo commercio, dall’epoca romana all’egemonia portoghese nel XVI secolo, al boom nel 1800, quando si stima che la produzione indiana raggiunse le 4.350 tonnellate annue.
La portata del commercio romano con l’India è stata recentemente riscoperta grazie a un papiro scritto in greco e conservato a Vienna, il Papyrus Vindobonensis G. 40822, meglio noto come Papiro di Muziris, che fornisce un dettagliato inventario e una valutazione in denaro del carico di una nave di nome Hermapollon, di ritorno dal porto di Muziris, «primo emporio dell’India» secondo Plinio il Vecchio. Il documento, redatto nel II secolo d.C. forse al momento di pagare i dazi in un porto sul Mar Rosso, conserva il contratto che copriva il trasporto della merce da Muziris fino ad Alessandria, e allude al prestito in denaro che aveva finanziato la spedizione. Non si trattava di un semplice prestito ma della vendita di un carico di merce in cui X, fattosi prestare del denaro da Y, s’impegnava a fornire come garanzia le merci che avrebbe comprato con il denaro stesso, secondo una tecnica praticata in Grecia fin dai tempi di Demostene.
Il frammento di testo superstite registra 60 container del valore totale di 7 milioni di sesterzi (pari a molti milioni di euro di oggi), la cifra con cui all’epoca fu realizzato l’acquedotto della città di Alessandria Troade, l’odierna Eski Stambul in Turchia. L’80% del carico era costituito dal pepe ma c’erano anche nardo, un profumo molto in voga, stoffe preziose, 167 zanne d’elefante e altre spezie. Conoscendo il prezzo standard del pepe in Età imperiale, si è potuto stimare il carico della nave a più di 544 tonnellate di pepe su 620 totali, una quantità paragonabile a quella esportata dai galeoni portoghesi all’inizio del 1500. L’ Hermapollon portava un carico superiore a quello della Nazaré , salpata dall’India per Lisbona nel 1518 con 491 tonnellate di merce, di cui 463 di pepe, e poco inferiore alle 700 tonnellate della São João , naufragata vicino a Port Edward in Sudafrica nel 1552.
La rotta per l’Italia romana, tuttavia, era più facile e sicura di quella affrontata dai Portoghesi. Come affermano Plinio e il Periplo del Mare Eritreo , un manuale mercantile con informazioni sulle rotte e i porti di Arabia e India, da Muziris, sfruttando i monsoni, si poteva raggiungere in 40 giorni il porto di Ocelis in Arabia. Da qui, attraversando il Mar Rosso, si approdava a Myos Hormos o Berenice in Egitto, dove il pepe e le altre merci, pagati i dazi, attraversavano il deserto su carovane di cammelli per circa 12 giorni, fino a Copto. Da qui discendevano il Nilo su chiatte fino ad Alessandria, da dove s’imbarcavano per Pozzuoli, alla volta di Roma o di altre destinazioni. Sulla via carovaniera da Copto a Berenice, nella mansio o stazione di Wadi Menih, una specie di grotta, si leggono incisi sulla roccia i nomi di cittadini romani di ritorno dall’India, come gli Annii Plocami da Pozzuoli, o i Peticii Marsi abruzzesi, potenti famiglie mercantili che operavano nel settore delle spedizioni. Così ci si è pure spiegati perché all’Aquila i Peticii avessero posto un bassorilievo con un dromedario recante anfore di vino.
Un testo poetico in lingua tamil ( Akananuru 149) parla della «ricca Muciri dove le navi, perfette e meravigliose costruzioni degli Yavanar (i Romani), arrivavano con l’oro e ripartivano cariche di pepe». La valuta romana era merce di scambio in tutti i porti arabi e indiani, e in India sono stati trovati oltre 6 mila denarii e mille aurei , probabilmente solo una frazione delle monete arrivate fin lì, che venivano per lo più fuse. Dai ritrovamenti è emerso che i cambiavalute indiani tesaurizzarono le emissioni più pregiate dei Giulio-Claudi, e dopo la crisi finanziaria sotto i Flavi, accettarono solo monete d’oro.
Il papiro di Muziris ha rivelato l’esistenza nel commercio fra Roma e l’India di un carico del valore di 7 milioni di sesterzi, una cifra molto superiore alla fortuna minima di un senatore (1 milione). È la prova ulteriore del coinvolgimento dell’élite senatoria ed equestre nel commercio a lunga distanza e in grandi operazioni di credito, e la dimostrazione che l’idea di un’aristocrazia immobilista, ostile al mercato e dedita esclusivamente all’ozio e all’agricoltura, è un artificio letterario. Nella Storia naturale , Plinio lamenta che «non c’è anno in cui l’India non dreni meno di 50 milioni di sesterzi dalla ricchezza del nostro impero, mandandoci merce da vendere a cento volte il suo prezzo di costo», e aggiunge amaramente che «l’India, la Cina e la Penisola arabica prendono dal nostro impero 100 mila sesterzi ogni anno come minimo — questa è la somma che il nostro lusso e le nostre donne ci fanno spendere».
Plinio probabilmente traeva questi dati dai registri doganali, e dunque dobbiamo credergli, anche se egli omette del tutto il valore delle esportazioni romane in India, come il vino, che sicuramente bilanciavano il quadro. Da buon tradizionalista, Plinio associava i beni di lusso alla decadenza morale della classe dirigente, e auspicava l’autarchia, temendo che l’emorragia di denaro avrebbe provocato il collasso della società. Ma il crollo dell’impero, avvenuto molto più tardi, non fu certo causato dalla preziosa piantina, i cui frutti dal sapore raffinato, nonostante le vicissitudini della storia e l’avvicendamento delle egemonie, non abbandonarono più la tavola degli europei.