Corriere La Lettura 18.9.16
Siamo umani, dunque globali
Quando gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che era un cosmopolita, un cittadino del mondo
di Mauro Bonazzi
Quando
gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che
era un cosmopolita, un cittadino del mondo. Una frase brillante, di cui
Immanuel Kant si sarebbe ricordato nel 1784, quando diede alle stampe un
breve saggio con un titolo lungo, Idee di una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico , che fondava su basi più solide l’ideale
del cosmopolitismo. Solo una comunità politica universale permetterà
agli uomini di realizzare la loro natura di esseri razionali e sociali,
offrendo la possibilità di una vita soddisfacente. Questa, scriveva, è
la meta verso cui ci stiamo dirigendo e per cui dobbiamo lottare.
Kant
è stato un grande filosofo e per una volta si è rivelato buon profeta,
visto che il cammino dell’umanità sta procedendo nella direzione di una
sempre maggiore integrazione, proprio come lui aveva auspicato. Il suo
entusiasmo, però, non troverebbe molto seguito oggi. Il mondo appare più
piccolo ma i problemi sono sempre più complicati e diffusi. E così si
leva insistente la voce di chi sogna un ritorno alle genuine tradizioni
nazionali che fecero grande l’Europa e che l’Illuminismo avrebbe
colpevolmente cancellato.
Fosse tutto così semplice: come ricorda
Jean-François Pradeau ( Gouverner avec le monde. Réflexions antiques sur
la mondialisation , Manitoba/Les Belles Lettres, 2015), la vocazione
universalista precede, e di molto, le discussioni di Kant e Voltaire.
Cosmopolita è una parola greca: e lo è anche l’idea, che poi passò nel
mondo cristiano. Gli uomini sono uguali e non si capisce perché non
possano vivere insieme, seguendo le indicazioni della ragione: questi
sono gli Stoici. Gli uomini sono tutti figli di Dio e non si capisce
perché non debbano vivere insieme, aspirando alla pace comune: questo è
Agostino. Anche «cattolico», lo si dimentica spesso, è un termine greco;
vuol dire universale. Insomma: i Greci, il cristianesimo,
l’Illuminismo. L’ideale cosmopolitico è parte costituente della
tradizione europea.
Per gli antichi era tutta una questione di
cerchi concentrici. Ciò che siamo, la vita che viviamo, si definisce a
partire da una serie di relazioni sempre più estese: ci sono la famiglia
e gli affetti privati; poi il mondo degli amici e del lavoro; e ancora,
quello dei cittadini e della patria; e via di seguito fino al cerchio
esterno che include tutti gli uomini. È evidente che ciò che ci è più
vicino importa, e tanto. Ma non possiamo non riconoscere la linea di
continuità che ci lega a tutti gli altri esseri umani in quanto esseri
umani. In fondo dove nasciamo dipende in gran parte del caso: ma
rimaniamo pur sempre parte dell’unica famiglia umana, membra dello
stesso corpo. «Sono un Antonino, la mia patria è Roma; sono un essere
umano, la mia patria è il mondo», scriveva Marco Aurelio, l’imperatore
filosofo, accampato presso le rive del Danubio. Lo aveva già detto anche
uno scrittore di commedie, Terenzio, arrivato a Roma dall’Africa (come
Agostino del resto): «Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo».
Erano
riflessioni che nascevano spontanee, tentativi di comprendere il senso
della storia degli uomini, mentre Roma estendeva il suo controllo su
parti sempre più estese del mondo conosciuto, e i confini tradizionali
venivano meno. Non si trattava di annullare le differenze ma di
accoglierle in un’unità più ampia. Le istituzioni sovranazionali
odierne, nate per tutelare i diritti dell’uomo, affondano le radici in
questa tradizione.
I problemi non sono soltanto, come si continua a
ripetere, politici o economici, argomenti su cui gli antichi avevano
peraltro idee strampalate. Platone e gli Stoici intitolavano i loro
trattati Costituzione o Repubblica e finivano inevitabilmente per
parlare di sesso. Diogene, poi, il primo cosmopolita confesso, con la
politica non voleva avere proprio nulla a che fare, rifiutandosi di
pensare che le convenzioni sociali o eventuali appartenenze di gruppo
potessero concorrere a definire quello che lui era, la sua identità.
Famigerato per i comportamenti scandalosi al limite del tollerabile
(c’era un motivo se lo chiamavano il «cane»), fautore di una libertà
così estrema da non essere desiderabile (ma davvero tutto può essere
permesso?), ha comunque il merito di chiarire il vero problema in
discussione con il cosmopolitismo.
È una questione prima di tutto
individuale, che riguarda come noi vediamo noi stessi. Il confronto con
gli altri è sempre faticoso: si giudica e si è giudicati, su tutto. Non è
facile scoprire che molte delle idee e principi a partire da cui
organizziamo le nostre giornate non costituiscono verità insindacabili
ma sono semplici abitudini, che potrebbero anche essere modificate. La
tentazione di rinserrarsi nel cerchio di ciò che è familiare o consueto
nasce da qui ed è onnipresente. È scontato criticare gli operai inglesi
che si sono chiusi al mondo votando contro l’Unione Europea. Ma, come ha
scritto giustamente Ross Douthat sul «New York Times», bisogna stare
attenti a non cadere nella retorica stantia che oppone nativisti (o
localisti) e internazionalisti (o cosmopoliti). I «cittadini globali»
che si sentono sempre a casa propria in qualunque parte del mondo, e che
però di fatto dormono in alberghi sempre uguali, comprano gli stessi
vestiti negli stessi negozi, e fanno insomma sempre le stesse identiche
cose in non importa quale posto (con l’aggiunta eventuale di un tocco di
esotismo: un po’ di religiosità orientale, di dolce vita italiana…),
non costituiscono una tribù anche loro? Una tribù, quel che è peggio,
che non si riconosce come tale e non è perciò in grado di confrontarsi
con gli altri gruppi di chi la pensa diversamente. È sempre una
questione di appartenenza, e la sfida del cosmopolitismo è tutta qui,
nell’invito a ripensare le nostre relazioni in tutte le direzioni.
«Essere
vasto, diverso e insieme fisso», scriveva Montale: non rifiutare i
rapporti più stretti, ma provare a guardare allo spettacolo della vita
umana, così diverso eppure così simile, con occhi meno preoccupati. Al
filosofo Pirrone è servito. Aveva seguito Alessandro Magno nella sua
campagna alla conquista del mondo. Vide quanto vari o arbitrari
potessero essere gli usi e i costumi dei popoli ma osservò anche che gli
uomini si affaccendavano sempre dietro agli stessi problemi, sempre
inquieti, come le api e le mosche. Senza giudicare, imparò a dare il
giusto peso alle cose, liberandosi della pretesa di essere il centro del
mondo. Si racconta che trovò la felicità.
I cerchi, intanto,
continuano a espandersi. Quando Diogene o Marco Aurelio affermavano di
essere cosmopoliti, intendevano quello che dicevano. Parliamo di
mondializzazione, globalizzazione, cosmopolitismo, ma pensiamo sempre a
noi stessi, agli uomini, mai al mondo (al globo, al cosmo). È come se
importassimo solo noi. E invece quello che siamo dipende anche dalla
nostra relazione con ciò che ci circonda. Ogni tanto conviene alzare lo
sguardo e realizzare che è tutto molto più grande: quale è il senso
della nostra esperienza di esseri umani — di questa mia esistenza
particolare — rispetto a questo universo immenso che ci circonda? Per
gli antichi la domanda era naturale perché sentivano di far parte di un
tutto vivente e perfettamente organizzato: anche i pianeti, esseri
divini e perfetti che percorrono eternamente le loro orbite circolari,
sostenevano, sono abitanti di quella città immensa che è l’universo, e
dunque nostri concittadini. Può sembrare bizzarro, ma anche Dante
nell’ultimo canto del Paradiso , quando ha finalmente coronato
l’obiettivo del suo viaggio, inizia a ruotare («sì come rota
ch’igualmente è mossa») intorno a Dio, «l’amor che move il sole e
l’altre stelle». Ci sono di nuovo i cerchi e i moti circolari:
l’immagine questa volta è aristotelica, ed è l’espressione di un’armonia
raggiunta — con se stessi, con gli altri, con le cose, finalmente
consapevoli di fare parte di un tutto che si squaderna ogni giorno nella
sua meravigliosa regolarità. È questa la vera appartenenza: «La sola
vera cittadinanza è quella che si esercita nell’universo», ripeteva il
solito Diogene.
La scienza moderna ha definitivamente smantellato
l’idea, in fondo così rassicurante, di un universo chiuso e
perfettamente organizzato intorno a noi. E tutto diventa più complicato.
Il pensiero corre a Friedrich Nietzsche, quando parlava di un universo
che precipita eternamente, spaventoso nell’infinita solitudine del tutto
(«non si è fatto più freddo?»); o alla luna di Giacomo Leopardi nel
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia , silenziosa,
indifferente, ormai estranea, lontana. Sono immagini suggestive. Ma
troppo unilaterali, forse. Perché il mondo è anche la natura, quel ciclo
della vita che fiorisce intorno a noi, e di cui dovremmo ritornare a
riconoscere il ritmo, come esortava un poeta, Archiloco, consapevoli del
fatto che anche noi ne facciamo comunque parte.
Gli antichi non
avrebbero mai creduto che l’uomo potesse arrivare a modificare
l’ambiente naturale che lo circonda, come invece sta accadendo. Ma, per
una volta tutti insieme senza litigare, avrebbero osservato con uno
sguardo benevolo i presidenti degli Stati Uniti d’America e della
Repubblica Popolare cinese, Barack Obama e Xi Jinping, firmare l’accordo
per ridurre le emissioni di gas inquinanti. La terra sarà pure un
piccolo punto insignificante e marginale nelle immensità dell’universo;
la vita sarà pure il risultato casuale di alcune reazioni chimiche
innescatesi accidentalmente. Ma sarebbe comunque un peccato sprecare
tutto, no?