Corriere La Lettura 18.9.16
I valori penultimi delle democrazie
Contro intolleranza e assolutismni, solo il dubbio permette di costruire una sana convivenza
di Remo Bodei
Nella
maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal
sanscrito dva o dvi , che significa «due» e in analogia con il latino
dubium o il tedesco Zweifel ) il dubbio indica incertezza dinanzi ad
alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o,
come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente
rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare
le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi
spontanei è stata — e continua a essere — una conquista che spetta a
ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione.
Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi
di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto,
del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità
creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea
di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno
di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre
evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi,
in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i
comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di
un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non
tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale
della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto
alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi
del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il
Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere)
incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha
sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse,
approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono
considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito.
Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al
giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a
credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il
comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si
chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan
«Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il
primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è
convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli
uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si
tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse
diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo
impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio
del dubbio. Da qui l’invito — o, meglio, il comando — a praticare una
«entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche
contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come
soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una
malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione
paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo
la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le
sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più
evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà
dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e
nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È
vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di
religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo
scorrere tanto sangue — secondo un contemporaneo — da far girare le
ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi
attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue
versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori
ultimi — assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la
forza — ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia
relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il
dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è
relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di
convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato
da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo
senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio
rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che
«raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento
ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più
tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi
sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere
«l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del
dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo
filologico, il senso della complessità delle cose».