Corriere La Lettura 18.9.16
La fine dell’universo interroga la filosofia
Da
tempo sappiamo che il sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi
di anni di vita residua della nostra stella. Ora abbiamo imparato che
l’intero insieme delle galassie si regge su un equilibrio precario che
si potrebbe rompere in qualunque momento. Per fare i conti con questa
gigantesca vulnerabilità dobbiamo riprendere in mano la lezione dei
presocratici, di Galileo e Newton. E di Einstein
di Guido Tonelli
In
un recente articolo su questo giornale («Aristotele contro Hawking», 21
agosto), Carlo Rovelli ha sviluppato con argomenti convincenti il
rapporto fra filosofia e scienza. Sono d’accordo su tutto quanto ha
scritto. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni, a partire dalla
frase di chiusura: «Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia
appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione
al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile».
La
filosofia nasce come cosmologia: da dove nasce il mondo, quale ordine
segue e quale ruolo ha l’umanità in tutto questo. Ai nostri giorni
invece, sembra che prevalga la spinta a concentrare le riflessioni
filosofiche sull’analisi del linguaggio, o limitarle allo studio dei
meccanismi epistemologici. Tutte cose importantissime beninteso ma, a
mio modo di vedere, un poco riduttive e che eludono comunque la
questione di fondo. Perché la filosofia moderna non può riprendere la
grande eredità dei presocratici o quella di scienziati-filosofi come
Galileo Galilei o Newton per non parlare di Einstein? Valutare cioè, e
sottoporre a critica, l’immagine del mondo che scaturisce dalle ricerche
scientifiche più avanzate e discuterne le conseguenze sul piano
filosofico, etico, culturale.
Sappiamo che, con tutti i suoi
limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più
dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando nel nostro campo
avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle
cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.
Abbiamo visto all’opera
questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai
primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto,
in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare
radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica
quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la
materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che
ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo
pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle
persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni
suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo. Ed eccoci
a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e
così via.
Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza
progredisce a ritmo incalzante e vorrei citare un paio di esempi.
Cominciamo col fare un salto all’indietro di 13,8 miliardi di anni, un
volo dell’immaginazione che ci riporta ai primissimi istanti di vita
dell’Universo bambino. Le osservazioni più accurate finora effettuate ci
indicano che tutto è nato da una microscopica, infinitesima
fluttuazione quantistica del vuoto. Lo stato di vuoto non è il nulla.
Anzi, può forse essere visto come un qualcosa che contiene già il tutto,
un po’ come il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma muto
contenitore di tutti i suoni possibili, vibrazioni su tutte le
frequenze, perfettamente accoppiate in opposizione di fase.
Come
tutti gli stati anche il vuoto segue le leggi della meccanica
quantistica. Non è immobile, statico, morto; al contrario, si agita,
fluttua, seguendo una dinamica rigorosamente governata dal principio di
indeterminazione. Le congetture più convincenti che siamo riusciti a
produrre ci dicono che dovremmo immaginare il formarsi, al suo interno,
di un brulichio di infinitesime fluttuazioni: microscopiche bollicine di
dimensioni inferiori a quelle delle più minuscole particelle
elementari. Quasi tutte si comportano in maniera educata e discreta. Ce
n’è almeno una tuttavia, che ha fin da subito un comportamento assai
bizzarro. Anziché richiudersi e ritornare allo stato fondamentale si
produce in una crescita parossistica. Sotto la spinta di una particella
materiale che ha preso corpo al suo interno, tutto si gonfia a una
velocità spaventosa. In un tempo ridicolmente piccolo la minuscola
porzione di spazio-tempo diventa un qualcosa di dimensioni
macroscopiche. Ci sono ancora molti lati oscuri sul meccanismo che
chiamiamo inflazione cosmica , ma alcuni punti fermi sembrano raggiunti.
Trovo
meraviglioso constatare che l’energia totale dell’Universo, abbia
tuttora, dopo miliardi di anni, lo stesso valore zero che aveva
all’inizio. Come se questo gigantesco, incredibile dettaglio ci dicesse,
parafrasando la frase del poeta: «Ma non vedete che tutto è fatto della
stessa sostanza dei sogni?» (William Shakespeare, The Tempest ).
Abbiamo
capito bene il meccanismo che ha portato la materia a formare corpi
persistenti. Ancora una volta tutto è stato definito nei primissimi
istanti di vita. È passato solo un attimo e la materia che compone il
nostro Universo è già tutta lì, ma la forma in cui si presenta è
completamente diversa da quella cui siamo abituati. Una specie di gas
impazzito di particelle elementari, prive di massa e che si muovono alla
velocità della luce riempie ogni angolo dello spazio-tempo appena nato.
Ed ecco che succede qualcosa di molto strano. Non appena l’espansione
furibonda degli istanti iniziali si placa e l’oggetto gigantesco che ne è
nato si raffredda a sufficienza, una miriade di bosoni di Higgs
condensa per sempre in un campo onnipresente. Il nuovo venuto cambia
tutto. Le particelle elementari, che rimangono come invischiate nel
campo dell’Higgs, si differenziano fra loro a seconda dell’intensità
dell’interazione, e così facendo finiscono con l’acquistare masse
irrimediabilmente diverse.
Alcuni quark, rimasti leggeri, si
aggregheranno con gluoni a formare protoni stabili; intorno ad essi
orbiteranno i leggerissimi elettroni e si potranno formare atomi e
molecole. Così si sono prodotte le enormi nebulose gassose da cui sono
nate le prime stelle e poi le galassie, e i pianeti e i sistemi solari
fino ai primi organismi viventi, via via sempre più complessi, per
arrivare, in ultima istanza, fino a noi.
Ed ecco che appare subito
un’ipotesi che fa girare la testa. È bastato chiedersi che tipo di
equilibrio reggesse questo vuoto elettrodebole che ha un ruolo così
importante e si è fatta una scoperta strabiliante e inattesa. L’intero
Universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile:
tutto danza fragile e precario, vicino all’orlo del baratro.
Bastava
poco a rendere tutto totalmente instabile: un bosone di Higgs appena
più leggero e la microscopica lacerazione, che si era aperta pochi
istanti prima, si sarebbe immediatamente richiusa e tutto sarebbe finito
prima ancora di cominciare. Ma la sottile impalcatura potrebbe cedere
di schianto anche ora, in un qualunque momento. Una delle spaventose
catastrofi che interessano le galassie più lontane, potrebbe mettere in
gioco energie talmente elevate da produrre un collasso locale del vuoto
elettrodebole, e l’intero Universo svanirebbe in un’immane bolla di pura
energia.
La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una
relazione fra la precarietà della condizione umana e quella
dell’Universo nel suo complesso. Come se la nostra fragilità di essere
umani fosse il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà
cosmica che interessa tutto: perfino le gigantesche strutture materiali
che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali.
«Non illuderti d’essere immortale — canta Orazio — t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo».
Dalla
notte dei tempi l’umanità ha cercato di superare questa condizione. Da
questo scacco sono nate le religioni, le filosofie e le grandi opere
d’arte; produrre qualcosa che duri millenni, che sopravviva al breve
ciclo della vita di ciascuno di noi: un cerchio di pietre megalitiche,
una gigantesca piramide, un poema epico o una statua meravigliosa.
Qualcosa che sfidi il tempo e avvicini le opere dell’uomo all’
immortalità della Terra, e degli astri celesti.
Da tempo sappiamo
che il nostro sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di vita
residua della nostra cara stella. Ora abbiamo imparato che l’intero
Universo si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in
un qualunque momento. Ne vogliamo discutere le implicazioni? E chi
meglio dei filosofi, degli umanisti, degli artisti lo potrebbe fare? Non
è certamente lavoro per gli scienziati. Mancano loro le competenze
adeguate e quello sguardo lungo che è necessario avere quando cambiano
paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria.
E
quale nuova prospettiva potrebbe nascere da questa più profonda
consapevolezza della intrinseca fragilità dell’intera struttura
materiale che ci circonda? Cosa vorrebbe dire, sul piano etico, fare i
conti con questa condizione di radicale, irriducibile vulnerabilità?
Forse, anzitutto, prendere coscienza dei propri limiti e salvare la
scienza stessa da quella specie di delirio di onnipotenza che ogni tanto
sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde
motivazioni a prendersi cura dei propri simili, avere rispetto dei
viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a
quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo
umano.