Corriere 9.9.16
Konchalovsky, film sulla Shoah «E fermiamo le bombe di oggi»
Il maestro russo applaudito per «Paradise» girato in bianco e nero
«Troppe stragi in nome della democrazia. Dico no a Hollywood»
di Valerio Cappelli
VENEZIA
In una Mostra che riserva i maggiori applausi a uno sbarbatello di 31
anni (Damien Chazelle, La La Land ), l’unico regista della vecchia
guardia che non naufraga nelle acque del Lido è Andrei Konchalovsky,
immerso nella Shoah. Senti il carisma, le solide letture alle spalle, le
betulle e i ciliegi di Cechov, il respiro di una Russia non dispotica e
guerrafondaia che da qualche parte ancora esiste. Oggi riceve il premio
«Bresson»: «Era il più grande, diceva che le immagini sono una cosa
volgare, la parola è sofisticata. Bisogna far sì che le persone vedano
cosa c’è dietro il mondo fisico, la sostanza spirituale».
In
Paradise mette le mani nel sangue e nel Male assoluto, uscendo a testa
alta da un tema nobile ma cinematograficamente usurato come l’Olocausto.
Prima però manda qualche cattivo pensiero a Hollywood. Due anni fa qui a
Venezia con Le notti bianche di un postino vinse il Leone d’argento,
film per cui ritirò la candidatura come miglior film straniero agli
Oscar. «Hollywood fa film per bambini, perché è un business e niente di
più. Hanno capito che i film oggi sono fatti per gente che non legge: i
giovani, che guardano Internet e amano le immagini. In passato invece
Hollywood realizzava film per i genitori. Hollywood ha capito, guarda al
profitto e si è adeguata ai tempi. Fortunatamente ci sono mezzi per
fruire dei film restando lontani dalle sale. Io non faccio film per i
multiplex, mentre i ragazzini mangiano pop corn».
Il suo film,
nella Francia occupata dai nazisti, ha tre protagonisti, che poi,
trascendendo la realtà, dopo morti si raccontano in monologhi a
punteggiare la storia: la contessa aristocratica russa che per salvare
bambini ebrei finisce in un campo di concentramento (Julia Vysotskaya
alla quale suo marito, ovvero Konchalovsky, ha fatto tagliare i capelli a
zero, ma è affascinante lo stesso); l’ufficiale tedesco colto col
chiodo fisso per un Intermezzo di Brahms, e in giorni felici in Toscana
amò, non corrisposto, quella donna (Christian Clauss); il
collaborazionista francese (Philippe Duquesne) che nelle autointerviste
racconta di avere una famigliola felice, padre amorevole. Deve portare
il figlio al circo, ma prima interroga l’aristocratica russa arrestata.
La banalità del male incorniciata da una citazione dantesca, come fece
l’ungherese Nemes a Cannes in Il figlio di Saul , mentre musica classica
e nazismo furono il pane de Il pianista di Polanski. Eppure c’è una
prospettiva inedita: la sofferenza fisica viene dopo. «Non volevo
raccontare la violenza sul corpo ma dello spirito, non meno dolorosa ma
più difficile da trasmettere al pubblico».
Poi c’è un’esigenza
formativa che non muore mai: «I giovani non sanno nulla del passato, non
conoscono nemmeno Mussolini, Umberto Eco scrisse una lettera al figlio e
al nipote sui danni nella perdita della memoria. La condizione umana ha
tre livelli di esistenza: quella animalesca, basata su aspetti
fisiologici; quella interiore e idealista; poi c’è un livello intermedio
dove si incontrano l’angelo e il diavolo». Il fondamentalismo di oggi è
una minaccia paragonabile al nazismo? «È un’etichetta appiccicata in
ogni movimento musulmano radicale, è l’esasperazione di una certa
filosofia e prescinde dall’aspetto religioso. Il nazismo fu lo stesso.
Però il fondamentalismo non è nato in Germania, ma quando i bianchi
andarono in Africa, in India, in America e ammassarono la gente nei
ghetti. Dopo il processo a Norimberga il mondo creò confusione, oggi si
bombarda in Libia o in Iraq come ottima causa della democrazia, il male
si presenta in abiti eleganti». Ha girato in bianco e nero: «Se vedi
gente a colori in pigiama a righe pensi subito che stai vedendo Nabucco
all’Opera».