Corriere 9.9.16
La lingua italiana siamo noi. Per questo dobbiamo rispettarla
di Giuseppe Antonelli
L’unico
studente, dalla terza fila, abbozzò un sorriso. Silenzio. Imbarazzo.
Delusione. Mi schiarii la voce e mi presentai. Silenzio. Attesa. Gli
chiesi — era l’esordio che mi ero preparato — quali fossero gli ultimi
libri che aveva letto. «Stephen King». Pausa. Imbarazzo suo, stavolta.
«E Leopardi». Leopardi e Stephen King, molto bene. E come mai aveva
scelto il corso di Storia della lingua italiana? «Perché in quest’orario
era l’unico». Ah. «Prima delle undici di solito non fa lezione
nessuno». Già. E come mai nessun altro studente? «Forse perché
l’italiano lo sanno già tutti». Rimasi talmente interdetto che non
riuscii a replicare nulla.
Oggi, di vent’anni più vecchi o, avrei
reagito in maniera diversa. Gli avrei senz’altro raccontato quella
storiella con cui lo scrittore David Foster Wallace aprì il suo discorso
ai laureati di un college americano. «Ci sono due pesci che nuotano e a
un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione
opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?”.
I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa:
“Che cavolo è l’acqua?”».
Già: cosa diavolo è l’acqua? È qualcosa
in cui siamo immersi così tanto da non accorgerci nemmeno che c’è.
Qualcosa di cui si prende coscienza solo osservando in maniera critica i
propri comportamenti e quelli di chi ci circonda. La storiella, spiega
Foster Wallace, «riguarda il valore vero della cultura, dove voti e
titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e
semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così
nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a
ricordare di continuo a noi stessi: “Questa è l’acqua, questa è
l’acqua”».
L’italiano è la lingua in cui viviamo: ogni giorno,
ogni momento. Al punto che non ci facciamo più caso. Al punto che la
diamo per scontata. E questo fa sì che spesso la usiamo senza nessuna
consapevolezza. Senza sfruttarne la ricchezza, le sfumature, le diverse
tonalità e potenzialità. Ci esprimiamo, se così si può dire,
passivamente: in maniera troppe volte trascurata, prevedibile,
approssimativa. Un bel problema: soprattutto quando dalla lingua parlata
si passa a quella scritta. Tanto che oggi una buona parte degli
italiani assomiglia al Gioacchino B. di Woody Allen: quel personaggio
«balbuziente. Ma non quando parlava, solo quando scriveva».
L’italiano
non è solo la lingua in cui viviamo: è quella in cui siamo cresciuti,
da cui siamo stati allevati. È la nostra lingua madre. Tra le citazioni
che aprono il libro di Umberto Eco dedicato alla Ricerca della lingua
perfetta nella cultura europea , una è tratta dalla Cronica del parmense
fra’ Salimbene de Adam, scritta nel XIII secolo. L’aneddoto riguarda
l’imperatore Federico II di Svevia, a cui Salimbene — nella sua opera —
attribuisce ogni sorta di nefandezze.
Per scoprire quale fosse la
vera lingua naturale dell’umanità, Federico II decise di fare un
esperimento. Tolse alle loro madri alcuni bambini appena nati e diede
ordine alle balie e alle nutrici di non far mancare loro nulla. Li
avrebbero nutriti, lavati, vestiti; ma non avrebbero mai dovuto — per
nessun motivo — rivolgere loro la parola. Federico «voleva infatti
conoscere», dice Salimbene nel suo latino medievale, «se parlassero la
lingua ebrea, che era la prima, oppure la greca, o la latina, o
l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei propri genitori, da
cui erano nati». L’esperimento fallì: tutti quei bambini, privati del
nutrimento della parola materna, si lasciarono morire.
Il
nutrimento della lingua madre è stato più volte paragonato al latte:
come il latte essenziale alla crescita umana. Un rapporto metaforico,
questo tra latte e lingua materna, che attraversa — possiamo dire —
tutta la storia della nostra letteratura: da Dante Alighieri fino ad
Andrea Zanzotto, il poeta veneto morto pochi anni fa. Ed è significativo
che nel primo, in Dante, dalla mammella sgorghi il volgare
(contrapposto al latino); nel secondo, il dialetto (contrapposto
all’italiano). L’idea è quella — a distanza di secoli — della
contrapposizione tra una lingua di natura e una lingua di cultura.
Contrapposizione finalmente sanata, ora che — da qualche decennio —
l’italiano è diventato la lingua madre di (quasi) tutti gli italiani e
le italiane.
La lingua madre e la madrelingua: la lingua «matria»,
come la chiamava alla fine del secolo scorso un altro poeta, Mario
Luzi, sostituendola all’idea di patria. Noi viviamo da sempre — da
sùbito — nella nostra lingua. La nostra lingua ci nutre, educa i nostri
pensieri e i nostri sentimenti, plasma la nostra visione del mondo.
Tutti noi le dobbiamo tantissimo e per questo merita tutta la nostra
riconoscenza: la nostra attenzione, il nostro studio, la nostra cura.
Questa è la lingua. La lingua siamo noi.