venerdì 9 settembre 2016

Corriere 9.9.16
Il grande merito dell’originalità nell’inferno dell’Olocausto

Parlare della Shoah e del delirio di onnipotenza nazista senza ripercorrere strade già battute (l’ultima, bellissima, quella del premio Oscar ungherese Il figlio di Saul ) è uno dei meriti di Paradise (Paradiso) del russo Andrei Konchalovsky, che racconta il tragico destino di una nobildonna russa, arrestata a Parigi per aver nascosto due piccoli ebrei e poi mandata in un lager tedesco, dal più improbabile dei punti di vista: quello delle anime trapassate. Sono loro — quelle della protagonista, del funzionario francese che l’ha fatta arrestare e dell’ufficiale tedesco che la ritrova nel campo dopo averla invano amata prima della guerra — a svelare allo spettatore i pensieri e le riflessioni che hanno mosso le loro azioni: la disperata voglia di sopravvivere dell’aristocratica, le giustificazioni del collaborazionista parigino, le illusioni superomistiche del nazista. E così, i fatti della storia e le confessioni post mortem si alternano in una spirale di finzione e di realtà che trascina lo spettatore dentro un mondo dove anche il bianco e nero serve a restituire lo squallore e l’abiezione di chi precipitò nell’incubo dei lager. E che il regista racconta cercando si ricordare il rischio che quei pensieri e quelle bugie (che le «anime» dei tre protagonisti confessano in macchina) possano tragicamente tornare a farsi sentire anche nei nostri giorni. (P.Me.)