Corriere 8.9.16
Milano ha scelto, salone in aprile
Federico Motta: «Troppi errori a Torino»
intervista di Cristina Taglietti
Nella
saga dei due saloni del libro, la soluzione è ancora ben lontana, ma
ora c’e un punto fermo: le date. La fiera del libro di Milano, ancora
senza nome, sarà un mese prima del Salone di Torino. È la decisione
della Fabbrica del Libro, lo società creata ad hoc da Fiera Milano e
Associazione italiana editori che ieri ha annunciato che la nuova
rassegna milanese si svolgerà dal 19 al 23 aprile (il Salone di Torino
sarà dal 18 al 22 maggio). Una decisone che non risolve l’impasse perché
due fiere nazionali a così breve distanza costringeranno comunque molti
editori a una scelta tra l’una o l’altra, ma che mette fine al balletto
delle ipotesi che in queste settimane ha tenuto banco. Oggi al Circolo
dei lettori di Torino una sessantina tra editori e librai contrari
all’idea di uno sdoppiamento milanese (tra cui i 13 dimissionari
dall’Aie) si riuniscono per capire quale ruolo e quale contributo
potranno dare al Salone di Torino, mentre tutti aspettano l’incontro
convocato lunedì a Roma dai ministri Dario Franceschini e Stefania
Giannini con i sindaci di Torino e Milano e i governatori di Lombardia e
Piemonte. Ci sarà anche Federico Motta, presidente dell’Aie, che fa il
punto della situazione e racconta la sua versione su come si è arrivati a
questo.
Avete sempre detto che la fiera di Milano sarebbe stata a maggio. Che cosa vi ha spinto a cambiare?
«È
una valutazione fatta considerando che il 23 aprile è la Giornata
mondiale del libro e del diritto d’autore e quindi la più coerente con
il Progetto promozione del libro e la sua finalità. Diventa una festa
per la comunità del libro italiano e internazionale, ma anche per
Milano, con una programmazione ad hoc del Comune per valorizzare il
momento, come avviene già in altri periodi per l’arte e il design. Tutto
il progetto sarà presentato a Milano il 5 ottobre».
Avete quindi risposto alle pressioni che arrivavano da più parti?
«No,
la scelta è stata dettata non da sollecitazioni ma da valutazioni di
merito, tra cui, ovviamente, anche quella della comunità del libro,
delle istituzioni locali e nazionali».
I due appuntamenti sono vicini. Questo sarà un problema per molti editori.
«Ognuno è ovviamente libero di fare le proprie scelte imprenditoriali, anche di partecipare a entrambi gli appuntamenti».
Mettete in conto che potrebbero essere molti quelli che scelgono Torino?
«Penso
che gli editori parteciperanno se troveranno che il progetto è
intelligente, che risponde alle esigenze dei vari comparti e amplia la
visione delle connessioni che ci sono tra il libro e altri settori. La
nostra è una fiera aperta al pubblico e anche su quello lavoreremo,
sull’aspetto commerciale. Una fiera aperta al pubblico, con un grande
bacino di utenza che non è solo quello di Milano, punto nevralgico di
tutto il sistema editoriale».
Oggi si riuniscono gli editori che
sono usciti dall’Aie, insieme ad altri che nell’Aie non c’erano o che
sono rimasti iscritti ma sono critici su come sono andate le cose, tra
cui Feltrinelli, Sellerio, Laterza.
«Gli editori dimessi sono 13
sugli oltre 300 associati che rappresentano più del 90 per cento del
mercato. Mi dispiace perché l’uscita di questi colleghi significa che
non siamo riusciti a trasferire tutti gli elementi che compongono il
progetto. E forse anche loro sono stati affrettati. Avrebbero potuto
aspettare e ascoltare che cosa avevamo da dire. Spero di riuscire a
incontrarli, a parlare con loro. Poi ovviamente ognuno farà quello che
ritiene più giusto fare».
Ma era proprio necessario arrivare a questo?
«È
stato un percorso molto vissuto dagli editori, con momenti di forte
confronto, ma determinato da una situazione che non era più sostenibile.
Non ci riconoscevamo più nel Salone di Torino. Il punto è: come è stata
gestita la Fondazione, con tutta la serie di problemi che esistevano e
che, secondo noi, ancora esistono».
L’atteggiamento dell’Aie, e suo, pare a molti arrogante e prepotente, da padroni del vapore.
«Mi
spiace che ci abbiano considerati arroganti, ma noi ci siamo comportati
con una forte coscienza civile, stando attenti a quelli che erano gli
equilibri di Torino che si apprestava alla campagna elettorale. A
febbraio 2016 il consiglio generale dell’Aie ha deciso all’unanimità di
uscire dalla Fondazione e di comunicarlo solo a elezioni comunali
avvenute. Non si volevano creare momenti di tensione durante la campagna
elettorale, considerato anche come e quanto l’attuale sindaca Chiara
Appendino avesse contestato il modello della politica culturale della
città negli anni in cui è stata in consiglio comunale».
Quali erano i problemi della Fondazione?
«Erano
di due tipi: uno economico-finanziario con un patrimonio negativo di
quasi mezzo milione di euro e debiti per tre milioni di euro. Si parlava
anche di due milioni di crediti, ma io non sono in grado di valutare se
erano esigibili o no. Non mi hanno dato gli strumenti per capirlo.
Dall’altra parte c’era, e c’è, un problema di gestione del Salone che è
l’aspetto che a noi interessava. Non siamo mai stati interpellati, non
abbiamo mai fatto parte del Comitato di indirizzo, abbiamo sempre e solo
avuto il ruolo dei ratificatori. Magari è stata colpa nostra, ma non
per questo si doveva continuare su questa strada».
Comune, Regione
e Provincia (finché c’era), erano gli enti che mettevano i
finanziamenti. Il contributo dell’Aie, che pure era socio fondatore, era
minimo.
«Vi erano aspetti non soltanto legati ai soldi, ma ai
libri. Senza gli editori, senza i loro apporti progettuali e creativi, è
difficile fare un salone del libro. È vero: chi mette i soldi può anche
pretendere di comandare. Però bisogna comandare bene. Per quale motivo
un cda deve ratificare un contratto d’affitto deciso all’esterno di 1
milione e 160 mila euro? Una cifra esorbitante che non corrisponde a
nessun parametro oggettivo. Quando si è in un consiglio di
amministrazione e si è in un certo senso obbligati a ratificare passaggi
di questo genere si pone un problema etico e di responsabilità. Si
fanno grandi apprezzamenti per il fatto che il contratto sia stato
ridotto della metà, ma è ancora tre volte superiore al costo di Milano
che per strutture è infinitamente migliore rispetto al Lingotto».
Che cosa si aspetta dall’incontro con il ministro? Pensa che il fatto di aver spostato le date possa servire?
«Sono
stato convocato e ovviamente vado, ma non so quale sarà il contenuto
dell’incontro. So che cosa spero che non mi chiedano».
Di fare un passo indietro?
«Rispondo
in un altro modo: ritengo che siamo in un Paese ancora libero da un
punto di vista sociale, culturale, economico. E la Costituzione tutela
queste libertà. Il ministro ha sempre una responsabilità politica e in
funzione di questa fa le proprie valutazioni. Esiste un’istituzione del
ministero che nei suoi compiti ha esattamente quello di promuovere la
lettura, di fare attività nelle scuole, di sostenere l’editoria
all’estero. È il Centro per il libro e la lettura. Quello è il nostro
riferimento. Perché dovrebbe diventare la Fondazione per il Libro il
riferimento? Perché hanno tolto l’Alto Coordinamento e questo la fa
diventare nazionale?».
Anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala,
nell’incontro con la sindaca di Torino Chiara Appendino ha detto che
bisogna cercare di evitare sovrapposizioni.
«Questa è
un’iniziativa imprenditoriale e industriale in cui due partner privati
investono risorse intellettuali ed economiche per un progetto nazionale.
L’assessore alla Cultura Filippo Del Corno lo ha sempre sostenuto e
anche il sindaco lo ha ammesso. Da un lato ci sono due soggetti che
mettono del loro e non hanno chiesto nulla né al Comune né alla Regione.
Dall’altro ci sono istituzioni locali che hanno immesso quantità di
denaro dei cittadini molto importanti, una Fondazione che non ha avuto
risultati positivi e che ha coinvolto anche le istituzioni politiche
nazionali e la più grande banca italiana. Sarebbe stato più corretto
andare a vedere esattamente qual è la situazione della Fondazione del
Libro. Se si vuole fare un’operazione culturale, come quella di cui il
Salone di Torino, come abbiamo letto per un mese e mezzo, è diventato il
paladino, si faccia un’altra cosa».
Quindi lei dice: la fiera la facciamo noi, loro trovino un’altra formula.
«Sì.
BookCity è quello: una grande operazione culturale, promozione della
cultura a 360 gradi. Torino può fare qualcosa seguendo il loro esempio».
Dopo l’incontro di luglio ci sono stati altri contatti con le istituzioni torinesi?
«No.
E neppure prima. Ho incontrato il governatore Chiamparino a ottobre
2015, l’assessora Parigi a marzo 2016 e il sindaco Fassino mai. Forse,
se ci avesse incontrato avrebbe capito meglio le nostre posizioni e si
poteva aprire un dialogo più costruttivo».
A che punto siete con il progetto?
«Con
la creazione della Fabbrica del Libro abbiamo lo strumento per
lavorare. Il 5 ottobre ci sarà la presentazione del progetto, con un
percorso di avvicinamento in cui si delineeranno la logica e si definirà
il nome».
Si è detto che sarà la fiera dei grandi editori contro gli indipendenti.
«Un’altra
leggenda: la fiera dei grandi e di Motta che è al servizio dei grandi.
Io sono presidente da settembre 2015. Prima lo sono stato per 12 anni e
non credo che avrei potuto farlo se non avessi garantito un equilibrio.
Vorrei ricordare che l’Aie applica il concetto della sussidiarietà in
toto, con i grandi che pagano per i piccoli. E che siamo gli unici in
Europa a organizzare una manifestazione per piccola e media editoria,
“Più libri più liberi”, a cui anche i dissidenti e i critici partecipano
con soddisfazione».
Quali saranno gli organi direttivi della fiera di Milano? Ci sarà un direttore editoriale?
«Posso dire che ci sarà un modo innovativo di gestire, un modo diverso di pensare».